È lo spauracchio rosso, il babau della gauche che i lepenisti evocano continuamente nei talk show per spaventare le classi medie. Proprio come si faceva un tempo, a parti invertite, con il vecchio Front National, partito “radioattivo”, considerato incompatibile con la République.

Il nome di Jean Luc Mélenchon, leader della France Insoumise (Fi) e azionista di maggioranza del Front Populaire è infatti il più pronunciato dalla bocca di Jordan Bardella e di Marine Le Pen che lo presentano ai francesi come una specie di reincarnazione di Pol pot, un giacobino invasato e violento, un amante delle rivoluzioni che soffia sul braciere del conflitto sociale, un islamo-gauchista protettore dei musulmani, un implicito sodale dei terroristi di Hamas e via discorrendo, «un pericolo esistenziale per la Francia» ha lanciato Bardella.

È il gioco, stucchevole, delle caricature, della demonizzazione dell’avversario, della propaganda tagliata con l’accetta, la musica di fondo della campagna elettorale più breve e polarizzata della Quinta repubblica, un confronto che si sta disputando sul filo dei sentimenti, dove le emozioni contano più dei programmi.

A dire il vero anche nel campo felpato della “macronia” Mélenchon è visto come uno sgradevole tribuno della plebe soprattutto per la suo durissima opposizione, in parlamento e nelle piazze, nei confronti dell’Eliseo e dei suoi governi, accusati di aver dichiarato guerra alle classi popolari approvando la loi travail e la contestatissima riforma delle riforma della pensioni.

C’è da dire che Mélenchon non ha un bel carattere, sa essere ruvido e diretto come pochi altri; per i politologi è un personaggio «divisivo» (clivant): se i suoi seguaci lo adorano come un piccolo padre, i suoi avversari lo disprezzano e lo temono come la peste; molti di loro sono davvero convinti che, se arrivasse a Matignon, proverebbe a trasformare la Francia in una versione gallica della Cuba castrista o del Venezuela di Chavez. La propaganda anti-Mélenchon funziona, lo dicono le inchieste di opinione per le quali il 75% dei francesi ne ha un’opinione negativa. Lui questo lo sa benissimo tanto da aver promesso che, in caso (improbabile) di vittoria al secondo turno, sarebbe disposto a compiere un passo indietro: «Non sono candidato premier, posso fare altro».

Nonostante la nomea di agit prop massimalista, a parte una vìbreve paretntesi in un gruppuscolo universitario trotzkista, Jean Luc Mélenchonnon non proviene dalla sinistra extraparlamentare e neanche dal partito comunista ma è una vecchia volpe della politica francese: in quasi sessant’anni di militanza a gauche ha ricoperto decine di cariche, dirigente del Partito socialista, vicesindaco, senatore, ministro, deputato europeo e parlamentare all’Assemblea nazionale. Un uomo di governo che adora la lotta fin da quando era bambino: «La mia prima manifestazione a cinque anni, intorno alla mia tavola da pranzo, a sostegno dell’indipendenza del Marocco».

È una figura complessa, Mélenchon, protagonista di capriole e ripensamenti, di oscure manovre di corridoio ma anche di generose fughe in avanti come quando ha abbandonato il Ps per la scommessa riuscita di creare un partito della gauche-gauche. Sospinto dalla passione e da un talento oratorio che gli riconoscono anche i nemici, sa scaldare le platee con parole di fuoco e invettive palpitanti, scivolando a volte in un compiaciuto lirismo che gli permette di esibire la sua grande cultura letteraria e storica.

Ed è bravo a farsi perdonare dagli amici, come quando chiese scusa per aver votato “sì” al referendum sul trattato di Maastricht o di aver sostenuto governi “troppo moderati” e vicini agli interessi del “grande capitale”. In comune con i sovranisti ha il disprezzo per «le oligarchie monetarie» e «le grandi banche finanziarie», convinto però che la crisi la debbano pagare i ricchi e non i migranti: «Il mio programma è semplice: voglio sradicare la miseria dalla società e voglio che siano le classi più agiate a dare il contributo maggiore».

Molto meno semplice sarà la prova che attende domenica il Front Populaire, architrave dello sbarramento repubblicano che tenterà di fermare l’ascesa della destra identitaria e nazionalista, una missione quasi impossibile, roba da ultima spiaggia.

E se il Rassemblement National otterrà la maggioranza assoluta dei seggi, come indicano i sondaggi, va da sé che tutta la colpa verrà addossata a Jean Luc “il rosso”, responsabile di aver allontanato gli elettori moderati. Davvero uno scenario ingiusto perché in fondo è solo grazie a lui che la sinistra conserva ancora una flebile speranza di giocarsi la partita e di evitare l’apocalisse. È uno dei tanti paradossi di queste paradossali elezioni politiche anticipate, dopo le quali la Francia non sarà più come prima.