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Il ministro dei trasporti e delle infrastrutture Matteo Salvini
Magari il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini è un convinto garantista e crede fermamente a ciò che dice, ma nella sempre più intricata vicenda che riguarda la ministra del Turismo Daniela Santanchè e le inchieste giudiziarie relative alle sue ex- società, potrebbe starci una piccola (o cospicua) parte di realpolitik.
I termini della questione, dopo le dichiarazioni della presidente del Consiglio dall'Arabia Saudita, appaiono abbastanza chiari: Meloni ha la sensazione che la ministra non sia popolare tra gli elettori e vede la sua permanenza nell'esecutivo come un potenziale tallone d'Achille per l'immagine del suo governo. Quando la premier dice di non avere le idee chiare, e aggiunge che farà delle valutazioni, in quanto esiste la presunzione d'innocenza ma esiste anche il principio di opportunità e agibilità politica, è evidente che quest'ultima sta operando una pressione sulla ministra per farle considerare l'ipotesi di un passo indietro.
Tutto sarebbe più semplice se la diretta interessata fosse più malleabile e aperta a un incarico alternativo, che la ponesse in una condizione meno esposta. Così però non è, e ciò è confermato dalla replica di Santanchè a Meloni di fronte ai cronisti (sempre in Arabia), quando ha affermato che le parole della presidente del Consiglio «non vanno interpretate ma ascoltate» e che non ha alcuna intenzione di dimettersi. Costringere alle dimissioni la ministra, dunque, sarebbe una strada certamente percorribile ma rappresenterebbe un episodio traumatico, soprattutto se si considera che Santanchè fa parte dello stesso partito della premier ed è una protegée del presidente del Senato Ignazio La Russa (che di FdI è tra i fondatori) nonché ex- socia dello stesso in alcune operazioni finanziarie nei tempi passati.
Quando ad avere problemi giudiziari, sempre nel perimetro di Fratelli d'Italia, fu l'allora sottosegretaria Augusta Montaruli, giovane parlamentare e fedelissima di Meloni, per la premier non vi fu alcuna remora o problema nel farla dimettere, a prescindere dal merito dell'inchiesta o del garantismo. Trattandosi di una questione di rimborsi, Meloni considerò che era un argomento sensibile per gli elettori “anti- casta” e fece dimettere la giovane deputata torinese.
La personalità e la storia di Santanchè dicono che alla ministra Meloni non può riservare lo stesso trattamento usato per Montaruli o per Gennaro Sangiuliano, che aveva messo immediatamente le proprie dimissioni sul tavolo.
Forse consapevole dello sconquasso che questa storia potrebbe causare nel primo partito della coalizione, Matteo Salvini si è assestato su una posizione ultragarantista per Santanchè: «Ribadisco che in Italia», ha affermato, «si è colpevoli se condannati, non se indagati, sospettati, rinviati a giudizio o sputtanati. Per quel che mi riguarda», ha aggiunto, «Daniela Santanché dovrebbe continuare a fare il suo lavoro». Il che significherebbe oggettivamente cronicizzare un elemento conclamato di imbarazzo per la premier. Sul piano giuridico, la proposizione di Salvini è ineccepibile, ma il segretario leghista è da sempre estremamente attento alle dinamiche del consenso e in passato non ha avuto remore nel fare leva sul colpevolismo per fatti di cronaca con un percorso giuridico tutto da definire, proprio per perseguire il consenso.
L'opposizione sta spingendo per calendarizzare in Parlamento al più presto la mozione di sfiducia, e verosimilmente, quando ciò avverrà, si saprà se i giudici avranno mantenuto a Milano o trasferito a Roma il processo per la presunta truffa sulla cassa Covid, inchiesta più sensibile rispetto all'opinione pubblica, come ammesso dalla stessa Santanchè. Se questo procedimento dovesse andare avanti spedito, è lecito pensare che un rinvio a giudizio su questo fronte difficilmente potrebbe essere sostenuto politicamente dalla premier.
Allo stesso tempo, arrivare a questa scadenza con la ministra ancora in sella non gioverebbe di certo al partito di maggioranza relativa. Ma magari al suo principale concorrente.