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Piccoli aneddoti innocui - come la cantina della casa di Pontassieve trasformata in studio da condividere con un altro “inquilino”: il figlio appassionato di palleggi col pallone - ma anche dettagli altrettanto piccoli ma più velenosi. Il libro Avanti, autore Matteo Renzi, è il paradiso di ogni retroscenista: svela dettagli succosi e fa arrabbiare tutti, soprattutto gli ex amici. Nessuno ammette di averlo letto e anzi inorridisce davanti a chiunque osi chiederglielo, ma dietro gli scuri chiusi per il gran caldo tutti hanno almeno sfogliato le 230 pagine, alla furtiva ricerca del proprio nome. Il grande avversario Massimo D’Alema, per esempio, ( intervistato sul Fatto Quotidiano, alla domanda se lo abbia letto risponde stizzito: «Per l’amor del cielo. Ho altro da leggere» ) non ha digerito il fatto che Renzi «educhi i suoi figli ad odiarmi». Casus belli, il racconto di come la dodicenne Ester Renzi, prima di aprire la porta ad un esterrefatto Matteo Orfini, abbia preteso dal Presidente Pd assicurazioni della sua fedeltà al fronte del Sì al referendum e l’abiura dell’amicizia proprio con il leader Maximo. Chiosa di Orfini: «Candidiamo lei anziché te, Matteo». Del resto, anche se proprio alla presentazione di Avanti Matteo Renzi ha rimpianto l’autodefinizione di «cattivo», il segretario dem novello narratore ha insaporito con più d’un pizzico di genuina malignità il suo libro. E allora, quando rivendica la bontà degli 80 euro «puliti e netti, senza troppe complicazioni» e lamenta come «l’Italia delle burocrazie sembri animata dal desiderio di complicare le cose semplici», spunta beffardo il nome di Bersani: «come ha espresso mirabilmente Bersani, Samuele Bersani, “Troppo cerebrale per capire che si può star bene anche senza complicare il pane”». A fare le spese dell’estro fiorentino, però, è soprattutto il predecessore a Palazzo Chigi, Enrico Letta: il passaggio della campanella si chiama «democrazia», ma «Letta entra in modalità broncio», perchè «fare la parte della vittima funziona sempre». Insomma, Enrico non gli avrebbe tributato «il suo sorriso migliore, pur detestandomi cordialmente», che invece si sarebbero scambiati persino Prodi e Berlusconi, rispettando il fair play istituzionale. Di più, oltre che invidioso Letta è anche scapestrato. Il cerimoniale di avvicendamento prevede che il premier uscente lasci a quello entrante una relazione scritta del lavoro svolto. Letta, invece, consegna a Renzi «un foglio scritto a mano in tutta fretta. Un fogliaccio che sembra la brutta copia di qualcosa». Ça va sans dire, Renzi conserva il foglietto per tutti i suoi mille giorni, «per ricordarmi sempre come non si lasciano le cose». L’unico a fare la parte del leone contro il malandrino di Firenze è Re Giorgio. Uno che lo guarda «con bonario sospetto e senza particolare trasporto» e lo chiama a rapporto anche il sabato sera tardi per fargli «una reprimenda in grande stile». Tra una citazione di Martin Luther King e una di Aldo Palazzeschi, scorre così il romanzo di formazione di Matteo Renzi: aneddoti, rivendicazioni e pizzicotti qua e là. Quanta politica ci sia è difficile dirlo, ma non si può che constatarne l’impenitente soggettiva.