Nei manuali di politica, quelli pieni di polvere che mestamente stazionano in alto nelle librerie, uno dei capitoli principali è dedicato alla subordinata. Intendendo con quel termine la via d'uscita frutto di una strategia scrupolosamente strutturata e poi messa da parte per essere tirarata fuori quando l'ipotesi principale non si realizza. L'accuratezza della subordinata è decisiva perché in politica (ma anche nella vita...) assai spesso capita che centrare l'obiettivo prioritario risulta impossibile. E perciò più è sapida la subordinata, più c'è la possibilità di tramutare in vittoria sonante una impasse impedente. Quanto tutto ciò conti ai fini del consolidamento di una leadership, non c'è bisogno di dire.Ma, appunto, quei manuali stanno lassù: anche loro rottamati. Forse Matteo Renzi se li è dimenticati; forse non li ha letti perché li giudica (non solo lui, va detto) noiosi. Fatto sta che di fronte ai sondaggi che danno il No stabilmente in testa e addirittura in ascesa, l'intera impalcatura politico-istituzionale-economico italiana traballa perché tutte le uscite sono state sbarrate e, quel che è più grave, appaiono ostruiti anche i percorsi d'emergenza.Fuori di metafora, l'epicentro della crisi in caso di tracollo del Sì sta nel fatto che manca un piano B. inutile cercarlo: non ce l'ha nessuno. Infatti. Se Renzi prevale, si va avanti secondo le indicazioni definite tra le mura di palazzo Chigi. Ma se invece perde si finisce nel panico perché, almeno ufficialmente, né il premier né - ed è la cosa più inquietante e perfino pericolosa - i suoi avversari, hanno previsto una alternativa sufficientemente praticabile. In sostanza la situazione è questa. Con la vittoria del No, il presidente del Consiglio lascia l'incarico, sale al Quirinale per dimettersi e, come ha finora ripetuto, è indisponibile per qualunque reincarico che non abbia praticamente gli stessi margini di manovra attuali. Niente governicchi, niente esecutivi tecnici o di scopo: l'ex sindaco si tira fuori e tanti saluti a tutti. In verità qualche maligno di scuola andreottiana (a pensar male, eccetera eccetera) sussurra che è tutta una finta, che Matteo certo si dimette ma il capo dello Stato lo rimanda in Parlamento o addirittura lo reincarica; a quel punto lui cambia un po' di ministri e oplà, avanti come prima più di prima visto che le alternative, appunto, latitano. Insomma tanto oltranzismo renziano primadelle urne sarebbe nient'altro che la replica in grande di quello "stai sereno" di lettiana memoria stavolta indirizzato erga omnes, cioè dentro e fuori al Pd.Può essere; la politica italiana è un caleidoscopio capace di mille meraviglie. E ancora una volta è impossibile non verificare che l'unica, vera modifica costituzionale da fare è quella che sempre manca: la sfiducia costruttiva che stroncherebbe manovre e manovrine. Fatto sta che il punto politico vero è un altro. Precisamente che neppure lo schieramento che a Renzi è ostile e che copre uno spazio politico vasto, articolato e, va detto, sommamente eterogeneo, ha preparato un piano B, che poi nel loro caso sarebbe un piano A. Per praticamente tutte le forze politiche sembra che le urne del 4 dicembre siano una sorta di colonne d'Ercole, superate le quali è "terra incognita". Così Salvini vuole andare a votare subito con qualunque legge elettorale; Berlusconi punta a larghe intese per un meccanismo proporzionale; i Cinquestelle fanno spallucce e aspettano sulla riva del fiume che passi il cadavere della legislatura. E dunque? Dunque sono tutti lì, dalla minoranza pd in giù, a dire che Matteo seppur sconfitto sta bene dove sta, ci mancherebbe.Però, però... Sotto sotto un pensiero si infila nella mente del leader Pd, che è puntuto come uno spillone e produce gli stessi effetti. Forse il piano B c'è, seppur occultato. Forse prevede che davvero Matteo lasci la poltrona di premier per sistemarsi su quella più stretta ma comunque incisiva di segretario Democrat e di lì condizionare ogni scenario, a partire dalle riforma elettorale. Qualcun altro farebbe il lavoro sporco attirandosi gli strali dell'opinione pubblica, mentre l'ex premier, con le mani più libere, preparerebbe la rivincita - e stavolta senza prigionieri - alle elezioni politiche.Anche qui: forse. Tuttavia non è che i piani B siano fungibili: non ogni volta almeno. Per cui se dalle urne arriva la mazzata che spezza le ginocchia, poi succede che non riesci più a camminare. Può essere, cioè, che quel voto segni l'inizio di una slavina che tutto sommerge: sogni di gloria e postume vendette comprese. Che insomma coinvolga anche postazioni apparentemente ultra solide: se lasci una poltrona, per esempio quella di premier, non è detto che resisti sull'altra. In fondo basta guardare la storia: della Dc, tanto per non andare lontano. Nel febbraio del 1989 Ciriaco De Mita si presentò al congresso forte della premiership conquistata dieci mesi prima. Voleva sbaragliare le correnti; finì travolto dall'alleanza tra Forlani e i dorotei di Gava. Arnaldo diventò segretario, a Ciriaco rimase palazzo Chigi. Per tre mesi: a maggio fu cacciato. Tre mesi, che coincidenza: il medesimo arco temporale che Renzi addita per fare la riforma dell'Italicum con lui fuori dal governo. Chissà se la storia funziona anche a parti rovesciate. Vale la pena, nell'inner circle renziano, se non stilare il piano B almeno cominciare a fare gli scongiuri.