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Maurizio Gasparri è a un pelo dal traguardo ma il rischio che venga trombato proprio in dirittura finale c’è. La presidenza della Commissione di vigilanza Rai è finita in quota azzurra ma M5S s’impunta sul nome dell’ex ministro, che si trascina inevitabilmente dietro una zaffata d’antichità berlusconiane. Molto meglio Alberto Barachini, che è sì un uomo Mediaset come se ne trovano pochi ma almeno è nuovo e non va oltre i 45. Si sa che l’apparenza è tutto e la sostanza interessa solo gli ingenuotti.
In alto mare nonostante i tempi stringano la nomina del cda Rai prevista per oggi. Seguirà a stretto giro l’elezione del presidente, con in ballo una girandola di nomi che più noti non si può: Pippo l’Immortale, Milena Gabanelli, Carlo Freccero fresco di riverniciatura in tinta sinistra sovranista. Ma ci sono sempre gli outsiders e nessuno al momento scommetterebbe un soldo su nessun nome.
Tutti invece scommetterebbero, probabilmente a colpo sicuro, sul fatto che anche nella terza Repubblica a viale Mazzini non cambierà niente. Denunciare le mani dei partiti sulla tv di Stato è uno di quegli obblighi che a non assolverlo si rischia di essere messi al bando, e infatti la denuncia viene ripetuta, senza nemmeno sforzarsi di cambiare una virgola, da decenni sempre uguale. Nessuno peraltro ha mai neppure ipotizzato per gioco di abbassare davvero le grinfie e non succederà neanche stavolta. Per i partiti di qualsiasi Repubblica il controllo di mamma Rai è da sempre quasi un obbligo morale. A dispetto delle numerose smentite nei palazzi è convinzione unanime che passi di lì il grosso dei consensi. Di qui la formula ovvia solo in apparenza: come sarebbe migliore la tv di Stato se i partiti si decidessero a sgombrarla come promettono invano di fare da tempi immemorabili.
Peccato che le verifiche pragmatiche confermino fino a un certo punto. Non è solo per l’inevitabile effetto distorsivo indotto dalla nostalgia che gli attempati ricordano la Rai degli anni ‘ 60 come una specie di miracolo. La presa della Dc era ferrea. La censura occhiuta, attenta soprattutto a vigilare sulla castità dei costumi ma senza dimenticare la politica. Le gemelle Kessler dovevano ballare con le calze, non sia mai gli spettatori fossero turbati da un millimetro di pelle ignuda. Tognazzi e Vianello furono messi alla porta per aver deriso il capitombolo del capo dello Stato, Dario Fo e Franca Rame che insistevano troppo sulla satira sociale furono cacciati sui due piedi e non rividero gli studi Rai per 16 anni. Ma la Rai del proconsole fanfaniano Ettore Bernabei, direttore generale dal 1961 al 1974, era un modello di televisione creativa, intelligente, capace di mettere al lavoro molte delle migliori energie del paese in materia di comunicazione.
La sola figura che per radicalità e longevità di potere ricorda l’inarrivabile Bernabei è Biagio Agnes, insediato da De Mita sulla poltrona di direttore generale nell’ 80. Era anche lui un uomo di partito e la ' sua Rai' era tra le più lottizzate di tutte. Eppure è sotto il suo regno che fiorirono esperienze ancora oggi considerate come modelli sia di televisione che di pluralismo come la terza rete di Angelo Guglielmi e il primo, insuperato Tg3.
Nella seconda Repubblica nessuno ha mai esercitato un potere simile a viale Mazzini. Ma la presa dei partiti non si è allentata. Al contrario, proprio la debolezza dei dirigenti, molto più esposti di prima alla temperie politiche nel nuovo clima bipolarista che segnava la seconda Repubblica, molto più spaventati dalle critiche dell’opposizione di turno, molto meno dotati di una solida esperienza televisiva ha impedito che si ripetessero le esperienze della prima Repubblica. Le spine sono rimaste tutte. Come quando il vicepremier Veltroni installò nel 1996 alla presidenza del cda un intellettuale come Enzo Siciliano, per dimostrare che finalmente i partiti facevano l’atteso ' passo indietro', salvo poi mettergli alle costole il suo ghost- writer con funzioni di controllo. I petali, cioè i risultati brillanti ottenuti sia da Bernabei che da Agnes, invece sono appassiti tutti La destra non è stata da meno, ma almeno Letizia Moratti, presidente prima di Siciliano aveva portato alle estreme conseguenze il nuovo taglio ' aziendale' della tv di Stato, costretta a una competizione durissima con le tv private. Negli anni 2000 l’azienda pubblica si è sempre trovata stretta tra due pressioni, quella del mercato, che condiziona una produzione spesso al ribasso e quella della politica, che qualche volta si esprime apertamente come ai tempi dell’editto bulgaro di Berlusconi, che portò alla defenestrazione di Enzi Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi nel 2002, ma più spesso condiziona silenziosamente, punta sull’autocensura più che sulla censura e finisce per portare risultati anche più devastanti.
La promessa della terza Repubblica è di cambiare tutto. Dall’esordio non sembra facile che si realizzi.