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«Non drammatizziamo, ci sono valutazioni diverse. È un legittimo confronto di opinioni che non riguarda solo la maggioranza ma tutto il Parlamento»: Balboni, presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, fresco di bocciatura dell'emendamento leghista sul terzo mandato per i governatori, minimizza, derubrica, stempera. Un emendamento bocciato come capita spesso. L'emendamento in questione rischia di far franare la roccaforte leghista del Veneto sulla testa di Salvini, la ferita è profonda e rischia, se davvero Meloni strapperà il Veneto al Carroccio, di diventare non cicatrizzabile. Ma per il momento bisogna far finta di niente e tutti si adeguano.
In realtà anche solo per mascherare la spaccatura è stato necessario un elaborato minuetto. Il governo ha dato parere negativo sull'emendamento leghista che portava a tre mandati il tetto per i sindaci dei Comuni più grandi. La Lega, diligente, ha ritirato il testo: prova di disponibilità del Carroccio e di compattezza della maggioranza. Il medesimo governo non ha dato pareri di sorta sull'emendamento gemello che alzava il tetto per i governatori, rimettendosi come già annunciato alla Commissione. Prova se non di disponibilità almeno di fair play che la Lega ha ufficialmente apprezzato. L'emendamento, nonostante la certissima sconfitta, non è pertanto stato ritirato senza che ciò apparisse come divisione di un governo formalmente neutrale. Al momento del voto, solo Iv ha sostenuto la richiesta del Carroccio, bocciata per 16 voti contro 4. Lo strappo, grazie a questa cerimonia diplomatica, c'è stato ma in modo tale da non implicare alcuna conseguenza. Non immediata almeno. La Lega infatti sottolinea che la partita non è chiusa e che nei prossimi mesi tenterà di convincere i colleghi di maggioranza.
La neutralità formale del governo serviva del resto anche a questo, oltre che a mettere in sordina la divisione: essendo una faccenda che, sulla carta, riguarda solo i singoli parlamentari e il loro libero convincimento nulla osta a tentare di nuovo, se e quando il ddl della Lega depositato alla Camera, identico nei contenuti al testo bocciato ieri a palazzo Madama, verrà discusso. Via via che si avvicineranno le elezioni in Veneto, però, mantenere il fair play e insistere nella minimizzazione diventerà più difficile: a Chigi e in via della Scrofa sanno benissimo di dover trovare una via per firmare la pace con il governatore uscente del Veneto Zaia perché una campagna elettorale con il popolarissimo governatore contro, magari in forma anche esplicita, con una sua lista e un suo candidato, sarebbe più che rischioso.
Ma per questo c'è tempo e molto, anzi moltissimo dipenderà da quel che succederà di qui al prossimo momento della verità: dalle elezioni di domenica in Sardegna, che sono un banco di prova non solo e non tanto per la coalizione di maggioranza ma per il decisionismo imperioso della premier, che ha imposto il suo candidato mettendo alla porta il governatore uscente targato Salvini, poi dalle Europee dove i voti saranno pesati e non solo contati. Se FdI confermasse il risultato delle politiche del 2023, per esempio, sarebbe senza dubbio il primo partito ma si tratterebbe lo stesso di una sconfitta politica. Basti dire che la premier starebbe valutando seriamente l'ipotesi di non candidarsi proprio perché non è sicura di superare il 30 per cento e con lei in campo l'asticella che separa una vittoria politica da una sconfitta sarebbe quella. Poi c'è la partita dell'autonomia differenziata: fino a che quella riforma, che per la Lega del nord vuol dire tutto, non è messa in cascina, Salvini non può che fare buon viso a cattivo e a volte pessimo gioco. Le variabili in gioco, anche senza contare quelle decisive, le fortune o sfortune elettorali della Lega e la sorte di Salvini, insomma sono molte.
La destra si è divisa, come ampiamente previsto. La sinistra invece no, fatto salvo il solito Renzi. Ancora una volta la ha avuta vinta Conte. Il Pd mirava a disertare il voto, un po' per far risaltare al massimo la spaccatura della maggioranza, un po' per evitare tensioni con i propri amministratori, che sul tema del terzo mandato sono sul piede di guerra. Conte si è opposto: la bandiera anti- politica del Movimento doveva sventolare alta. Il voto contro il terzo mandato per i governatori ha visto così convergere opposizione e gran parte della maggioranza. La retromarcia sui sindaci della Lega ha evitato lo strappo con i sindaci del Pd. Ma Elly non è salva. Comunque vada a finire la partita sui governatori il guaio più grosso per lei resta intatto: Puglia e Campania non hanno recepito la legge nazionale sui due mandati. In concreto Emiliano e De Luca possono candidarsi comunque. Il pugliese sta trattando una lucrosa buonuscita, forse il ritorno a Bari come ri- sindaco. Il campano invece sembra sia ancora determinato e con lui contro per il Pd la Campania, cioè la più importante regione del sud, è già quasi persa.