«Fatevi il vostro simbolo, andate avanti e fate le vostre cose. Il Movimento è stramorto ma è compostabile. L'humus che c'è dentro non è morto», la zampata Beppe Grillo se la risparmia per la fine del messaggio funereo che pronuncia appunto da un carro funebre (ma con le note della IX Sinfonia, l’Inno alla Gioia, sullo sfondo). Cosa significhi l’esplicita minaccia non lo dice, per ora. Di certo però vuol dire rogne, e tante. Dunque qualche brivido traversa il Campo Largo. Non dalle parti del nemico giurato di Beppe, ma nelle stanze del Nazareno.

Conte si aspettava una mossa del genere. Non è sorpreso né particolarmente colpito. L’ormai ex garante ha tenuto bassi i decibel ma nei contenuti è andato giù pesante. Lo ha ribattezzato «il mago di Oz», soprannome scelto con perizia, essendo il mago in questione un ometto che sembra un gigante grazie alle doti di illusionista, arrivato per caso da una terra straniera. Poi, anche più greve lo ha definito «un sottopassaggio» che ha trasformato il Movimento in «un partitino che fa giochetti sulle alleanze come faceva la Dc». Con tanto di esempio di «giochetto», giusto per tirare in mezzo di brutta Fico, la cui candidatura in Campania sarebbe stata barattata con l’appoggio del M5S al candidato del Pd in Liguria. Ma appunto, sono sberle che Conte non temeva e non teme.

La popolarità dell’ex premier non è più quella vertiginosa dei tempi di palazzo Chigi ma i fans che gli sono rimasti hanno con il loro idolo lo stesso rapporto che il pubblico adorante intrattiene con le rockstar. Non lo abbandoneranno per gli anatemi del fondatore. I vertici del Movimento, ma anche la parte meno convinta dell’elettorato, si aggrappa a Conte come alla sola zattera in acqua dopo il naufragio: incluse figure di grandissimo ascendente come Marco Travaglio o Chiara Appendino che sponsorizzano Conte, il primo anche con un eccesso di livore nei confronti del comico genovese, ma anche una linea politica opposta a quella del medesimo leader. Cose che capitano quando ci si deve aggrappare a quel che passa il mercato pur di non annegare.

Insomma Grillo si dice «ottimista» sull'esito della votazione sulle modifiche statutarie che sarà ripetuta a partire da domani. Esorta gli iscritti, in particolare quelli che non si sono espressi nella prima votazione, a votare oppure «ad andare per funghi». Ma sa perfettamente di essere destinato a perdere e lo sa anche Conte. Il nuovo leader, nel partito, si sente in una botte di ferro e lo è davvero. Ma sulle reazioni dell’elettorato alla bega che sta per assumere dimensioni ciclopiche non può mettere la mano sul fuoco, come non può farlo nessuno. Quel che spaventa il Pd è proprio questo.

Dopo le elezioni in Liguria, Emilia e Umbria la segretaria è intoccabile. Il leader della minoranza, Bonaccini, ha messo da parte ogni ambizione bellicosa. La minoranza stessa cerca di farsi sentire ma per conquistare spazi, e posti, ma senza mettere in discussione la leadership. I risultati sono più che connfortanti e la recente conquista di Anzio e Nettuno, strappate alla destra, conferma l’ottimismo, almeno per quanto riguarda il partito. Il solo motivo di preoccupazione, unico ma gigantesco, è costituito proprio dal M5S. O più precisamente dalla sua capacità di tenuta. Se il Movimento non supera la doppia cifra, e anche con una certa larghezza, ogni possibilità di battere la destra è preclusa. O almeno lo è fino a che la legge elettorale resterà quella che è e si può scommettere che la maggioranza di centrodestra impedirà che venga modificata prima delle prossime elezioni politiche. L’affondo di Grillo promette di rendere quel risultato, già incerto, ancora più distante.

Una scissione propriamente detta del Movimento non è impossibile ma neppure improbabile. Per tentare quell’azzardo Grillo dovrebbe disporre di figure di grandissimo richiamo, tanto da competere con l’ex premier. Potrebbe tentare quella carta solo se Di Battista e Virginia Raggi fossero disposti a mettersi in gioco, senza risparmiarsi. In compenso può impegnare Conte in una estenuante battaglia legale.

A norma di sentenza passata in giudicato del 2009 nome e simbolo sono di Beppe: ne fa quel che vuole e li porta via a piacimento. C’è una scrittura privata che smentisce quella sentenza e vieta al fondatore di riprendersi i non secondari simboli ma perché abbia valore Grillo deve riconoscerla come propria. Altrimenti si finisce dagli avvocati e niente raffredda gli entusiasmi dell’elettorato più degli alti ideali degenerati in bega legale.

Conte, convinto di mantenere comunque un nucleo forte di elettorato e poco interessato a governare, può permettersi il lusso di non temere troppo il salasso che conseguirebbe probabilmente alla battaglia in tribunale. Il Pd, che gioca per vincere le elezioni, invece non se lo può permettere.