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Sono reo confesso, persino davanti a un commissario di polizia o pubblico ministero assomigliante fisicamente a Marco Travaglio, di scarsa, ma assai scarsa simpatia verso il politico Giuseppe Conte. Non verso l’avvocato, poco importa se del popolo o di altri più in particolare, per il rispetto che gli debbo - chiamatelo pure opportunistico - come collega dei miei, anzi nostri editori. Non ridete, per favore. Lo dico sul serio. Eppure, non per convenienza ma per convinzione, non per simpatia - ripeto - ma per onestà professionale, scrivendo di politica da una vita, e per niente breve, ritengo disonesto il processo più o meno sommario che hanno improvvisato gli avversari contro l’ex presidente del Consiglio per quel maledetto articolo 25 di un decreto sul crollo del ponte Morandi a Genova, nel 2018. Esso consentiva l’espletamento più rapido di vecchie pratiche di condono di ancor più vecchi abusi edilizi a Ischia. Alcuni dei quali, magari, possono avere messo il loro pur infinitesimale zampino nella valanga di acqua e di fango che ha appena riportato tragicamente l’isola sulle prime pagine dei giornali, italiani e anche stranieri. E che ha spinto persino il troppo algido presidente Emmanuel Macron, almeno agli occhi dei suoi critici, a fare una telefonata di solidarietà e di riconciliazione - si spera - alla nuova premier romana Giorgia Meloni dopo il malinteso, chiamiamolo così, sui migranti sbarcati una volta tanto in un porto francese dalla nave di soccorso Ocean Viking. Nossignori, se volete processare Conte, dovete portare sul banco degli imputati fior di altri politici viventi e defunti, alla memoria. E non solo per gli abusi edilizi e relativi condoni, tutti studiati per raccogliere insieme consensi elettorali ed entrate utili a mettere qualche pezza nei conti pubblici sempre sofferenti, ma anche per quelli che mi permetto di considerare, anche al costo di sembrarvi provocatorio, i loro parenti stretti. Sono, nell’ordine più spontaneo che mi viene, le evasioni fiscali e i redditi - al plurale - di cittadinanza. Materia, quest’ultima, con tutti gli abusi che vengono fuori un giorno sì e l’altro pure, spesso tra le pieghe di indagini su altri reati, addebitabile alla categoria più generale del populismo d’accatto. In cui Conte, paradossalmente, per convenienza elettorale e politica avrebbe pure interesse a rimanere solo sul banco metaforico degli imputati, tanto da avere già organizzato una prima manifestazione di protesta contro i tagli pianificati dal nuovo governo, ma dove non sarebbe giusto lasciarlo solo, ancora una volta. Al reddito di cittadinanza, al singolare, come una pomata da spalmare sulla piaga dell'indigenza, o persino - nella immaginazione balconara di Luigi Di Maio nel 2018 in veste di vice presidente del Consiglio e ministro, insieme, del Lavoro e dello Sviluppo Economico - come l’arma segreta per “la sconfitta della povertà”; al reddito di cittadinanza, dicevo, hanno dato il loro contributo di apprezzamento e persino di collaborazione quasi tutti. Penso ai leghisti di Matteo Salvini, partecipi del primo governo Conte, al Pd di Enrico Letta partecipe del secondo governo Conte, naturalmente contrario a rimetterlo in discussione, ma anche a Silvio Berlusconi, sempre pronto a precisare i limiti di ogni intervento correttivo e a riconoscere le buone finalità della misura a suo tempo voluta dai grillini. Il mio buon amico Marcello Sorgi nei panni di uno storico ancora più attrezzato e professionale di un altro mio buon amico come Paolo Mieli, è appena risalito sulla Stampa addirittura al 119 dopo Cristo per trovare nell’imperatore Adriano il progenitore dei condonisti - chiamiamoli così - dei nostri tempi e di quelli attribuibili alla cosiddetta prima Repubblica. Conte può così ritrovarsi, non so francamente quanto volentieri o pazientemente, con i compianti Mariano Rumor, Giovanni Spadolini, Bettino Craxi, Giulio Andreotti, e i viventi Lamberto Dini e Berlusconi, finiti tutti in effigie più o meno ovale in una galleria all’interno, sempre, della Stampa. Per chiudere, permettetemi due parole su una proposta appena formulata su Repubblica da Giovanni Moro, figlio dell’indimenticato e indimenticabile Aldo, contro gli evasori fiscali che tanto ha indignato sulla Verità Maurizio Belpietro: togliere loro il diritto di voto, attivo e non solo passivo. Ma guarda, Giovanni, che gli evasori fiscali, per me anch’essi parenti stretti degli abusivi dell’edilizia e di altri corteggiati dai populismi ambivalenti, già se ne fregano da soli delle elezioni non partecipandovi. Non a caso gli astensionisti costituiscono da tempo il vero, temo insuperabile partito di maggioranza in Italia.