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Questo è ancora il tempo del lavoro e della collaborazione ma, a tempesta finita, l'analisi dei dati riaccenderà lo scontro tra governo Conte e Regioni. A darne la certezza sono due dichiarazioni analoghe, provenienti da fronti alleati ma spesso distanti. Da una parte il capo politico del Movimento 5 Stelle, Vito Crimi, che hai microfoni di Agorà ha scandito: «Centralizzare la sanità? È uno dei nostri primi disegni di legge presentati nel 2013 dalla senatrice Taverna» ed è stato «ripresentato in questi giorni» ovvero «togliere le parole "tutela della sanità" dall’articolo 117 della Costituzione, che prevede sia regionale. Noi siamo sempre stati per riportare la sanità a livello nazionale, perché oggi le regioni stanno dimostrando la differenza di trattamento». Insomma, un'avocazione di funzioni in piena regola, per farle tornare sotto l'egida dello Stato. Dello stesso tenore, le parole alla Stampa del vicesegretario del Pd, Andrea Orlando, che da tempo studia da leader. «La Sanità torni in mano al governo. Questa la prima riforma dopo la crisi», ha detto, spiegando che «dopo la crisi bisognerà iniziare a ragionare, traendo una lezione da quanto successo e pensare se sia il caso di far tornare in capo allo Stato alcune competenze come la sanità». La ragione, Orlando la spiega in questi termini: «Con 20 regioni che parlano 20 lingue diverse, credo sia necessario riconsiderare l’ipotesi della clausole di supremazia previste dalla riforma del 2016, ovvero di un ritorno delle competenze sanitarie allo Stato centrale». Del resto, la leva del governo in questa direzione arriva dai dati. Un esempio su tutti, per evidenziare i differenti approcci gestionali alla crisi sanitaria tra regioni entrambe duramente colpite: la Lombardia ha un tasso di mortalità che ha raggiunto anche il 14% mentre il Veneto è fisso sul 3,3%. Giorgio Palù, docente emerito di microbiologia a Padova, richiamato da Zaia alla guida del team della regione Veneto, spiega in un’intervista al Corriere della Sera le ragioni di questo divario. «In Lombardia - dice - hanno ricoverato quasi tutti, il 60% dei casi confermati, esaurendo presto i posti letto. Da noi, i medici di base e i Servizi d’igiene delle Asl hanno fatto filtro: solo il 20%. Tenendo a casa i positivi asintomatici si è evitato l’affollamento degli ospedali e la diffusione del contagio». In Lombardia, aggiunge il virologo «Nessuno si è ricordato la lezione della Sars. Che è stato un virus nosocomiale, così come lo è il Covid-19. A diffusione ospedaliera. La scelta della Lombardia di trasferire i malati dall’ospedale di Codogno, che era il primo focolaio, ad altre strutture della regione, si è rivelata infelice perchè ha esportato il contagio, senza per altro che venisse monitorato subito il personale medico. Hanno agito sull’onda emotiva. Tutti dentro. Invece dovevano tenerne fuori il più possibile. Qualcuno non ha capito che questa non è un’emergenza clinica e di assistenza ai malati, ma di sanità pubblica». Quel che è certo, tuttavia, è che i desiderata di un governo in apnea al centro di una tempesta sanitaria perfetta non si tradurranno automaticamente in scelte. Tradotto: finita la crisi, anche lo stesso governo finirà sotto la lente di ingrandimento dei territori e si aprirà, comunque vadano le cose, una nuova stagione politica. E le incognite saranno tante: il gradimento del governo Conte e le misure messe in campo per arginare il disastro economico; ma anche la tenuta del Parlamento ormai commissariato da mesi. Perchè da lì dovrà passare ogni proposta, soprattutto quelle che - come la modifica del 117 della Costituzione - prevedono una procedura di legge rafforzata. E allora anche le Regioni avranno il loro asso nella manica nel richiamare a rapporto i propri parlamentari eletti, in difesa della competenza esclusiva della sanità, la cui gestione è stata il fiore all'occhiello e la croce di molti governatori. E che pesa per circa un terzo del bilancio di tutte le regioni.