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Consapevole della quantità e della gravità dei problemi sul tappeto per tutta la comunità nazionale, e quasi per scusarsi dell’eccessivo ottimismo col quale salutò l’arrivo del 2019 prevedendolo «bellissimo», il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha recentemente detto in un salotto televisivo di essersi fatto prendere un po’ troppo la mano dall’insistenza con la quale i giornalisti gli chiedevano allora previsioni.
Il quadro economico e politico, in verità, era difficile anche in quei tempi. Conte aveva appena finito di salvare il progetto di bilancio dall’artiglieria - si fa per dire- dell’Unione Europea, allarmata da quel 2,4 per cento di deficit rispetto al prodotto interno lordo con cui il suo vice presidente del Consiglio e pluriministro Luigi Di Maio aveva baldanzosamente annunciato in autunno dal balcone di Palazzo Chigi addirittura la fine della povertà.
Il salvataggio dei conti, dopo una lunga trattativa a Bruxelles, fu possibile abbassando il deficit dal 2,4 al 2,04 per cento, con tutte le ironie scritte e disegnate su quello zero che aveva fatto la differenza, almeno in apparenza, rendendo digeribili alle autorità di sorveglianza, o similari, le spese per il reddito di cittadinanza e per gli anticipi pensionistici che grillini e leghisti si erano scambiati nel contratto di governo.
Ma a favore di Conte e delle sue previsioni giocava soprattutto la determinazione con la quale entrambi i partiti della maggioranza gialloverde, come fu chiamata dai colori delle due formazioni politiche che la componevano, si proponevano di far durare il loro governo per cinque anni, cioè per tutta la durata della legislatura pur così avventurosamente cominciata, con una crisi piena di sorprese, un presidente della Repubblica ricorso a ben due esplorazioni suppletive alle sue consultazioni, affidate ai presidenti delle Camere, una minaccia di impeachment a Mattarella da parte di Di Maio e infine l’intesa fra due partiti, o movimenti, che in campagna elettorale se l’erano pur dette e date di santa ragione.
Quella eccezionale formula di governo apparve simile per certi aspetti alla straordinarietà degli accordi raggiunti nel 1976, sotto la regìa di Aldo Moro per la Dc e di Enrico Berlinguer per il Pci, fra i due partiti più votati dagli elettori ma contrapposti nei programmi e nelle ideologie.
Minata però dalla mancanza della clausola prudentemente concordata nel 1976 fra la Dc e il Pci, secondo cui nessuno dei due partiti avrebbe tentato in caso di crisi di fare un governo l’uno contro l’altro, con sbocco quindi inevitabilmente elettorale, la coalizione gialloverde si è letteralmente dissolta nella scorsa estate: quasi come un gelato al sole. I grillini non hanno saputo resistere alla botta delle elezioni europee di fine maggio, costate loro quasi metà dei voti conseguiti l’anno prima nelle elezioni politiche. E i leghisti di Matteo Salvini non hanno saputo resistere alla tentazione di incassare subito e tutto il loro dividendo elettorale, diciamo così, reclamando un rinnovo anticipato delle Camere per tornare poi al governo con un centrodestra a trazione questa volta indiscutibilmente salviniana, date le dimensioni assunte dalle distanze tra i partiti di Salvini e quelli di Silvio Berlusconi e di Giorgia Meloni.
In assenza, ripeto, della clausola della dissoluzione di memoria morotea e berlingueriana, e per giunta indeboliti dal dimezzamento elettorale di fine maggio nel rinnovo del Parlamento europeo, i grillini non hanno esitato a raccogliere la palla prontamente passata loro dal Pd dopo la crisi attivata da Salvini. E si è arrivati al governo attuale. Che non era però per niente scontato fosse guidato da Conte, non a caso contestato in un primo momento dal Pd in nome della cosiddetta discontinuità, apparsa necessaria alla sinistra per sottolineare un così vistoso e obiettivo cambiamento di scenario politico. Bisogna riconoscere, ai di là dei giudizi personali e politici che ciascuno può avere maturato verso di lui, che Conte ha saputo giocare al meglio la partita di Palazzo Chigi nel passaggio tra una maggioranza e l’altra.
Lo ha fatto sia sul versante grillino, dove certamente non mancavano alternative che potessero fare comodo anche al Pd, come la promozione di Roberto Fico, che avrebbe non aperto ma spalancato le porte della presidenza della Camera a Dario Franceschini, che vi aveva già puntato nel 2013, sia sul versante di sinistra.
Negare questa abilità di Conte, questa capacità che ha dimostrato di tessere rapporti personali e politici, anche fuori d’Italia, con quel «Giuseppi» d’incoraggiamento gridatogli oltre Oceano dal presidente in persona degli Stati Uniti d’America, pur con certi veleni che sono poi intervenuti, sarebbe non solo ingiusto ma anche disonesto.
Forse neppure il presidente del Consiglio, arrivato alla politica dall’Università e dalla professione forense in modo davvero inatteso, si è reso e si rende ancora conto dell’eccezionalità della sua conferma a Palazzo Chigi con scenari così diversi fra di loro.
Solo due predecessori di Conte su questo terreno potrebbero essere intravisti sfogliando l’elenco dei governi succedutisi nella storia ormai più che settantennale della Repubblica. Sono Alcide De Gasperi, passato di colpo da un governo con i comunisti ad un governo contro i comunisti, e Giulio Andreotti, passato da un governo centrista contro le sinistre al governo di cosiddetta solidarietà nazionale, composto interamente da democristiani e appoggiato dai comunisti in modo determinante. Ma entrambi i paragoni alla fine non reggono all’esame analitico dei fatti e delle circostanze, per cui Conte rimane un caso unico.
De Gasperi, il mitico presidente della ricostruzione dell’Italia dopo il disastro della seconda guerra mondiale, fu in grado nella primavera del 1947 di scaricare i comunisti e i socialisti praticamente dalla sera alla mattina, dopo un viaggio negli Stati Uniti, in un contesto istituzionale e internazionale particolarissimo. Si era ancora in fase costituente, dopo il referendum del 1946 che aveva istituito la Repubblica, ma si erano già esaurite le ragioni e la logica dei comitati nazionali di liberazione dal nazifascismo. C’era solo da applicare nei territori del vecchio continente la logica della spartizione politica concordata fra le potenze vincitrici della guerra a Yalta, dove fu praticamente deciso che i comunisti avrebbero governato nell’est dell’Europa, sotto l’influenza sovietica, e non all’Ovest, che sarebbe stato d’influenza americana. Nacque così il quarto governo De Gasperi, composto solo da democristiani, socialdemocratici, repubblicani e liberali, che insieme avrebbero non vinto ma stravinto il 18 aprile 1948 contro il cosiddetto fronte popolare dei comunisti e dei socialisti le elezioni per la prima vera e propria legislatura repubblicana. Ciò consentì di proseguire la stagione centrista sino alla rottura fra i socialisti, già abbadonati dai socialdemocratici nel 1947, e i comunisti: rottura che avrebbe consentito il passaggio dal centrismo al centro- sinistra, allora da scrivere rigorosamente col trattino, tanta era la prudenza della Dc.
Andreotti invece formò il suo primo governo, interamente democristiano, nel febbraio del 1972 per gestire le elezioni anticipate provocate dall’esaurimento della prima fase del centro- sinistra, quando i socialisti ruppero con la Dc per l’elezione di Giovanni Leone al Quirinale senza il loro consenso, con una maggioranza di centro- destra. Seguì dopo le elezioni un secondo governo Andreotti di coalizione centrista, composto da democristiani, socialdemocratici e liberali e appoggiato esternamente dai repubblicani.
Esso durò sino a giugno dell’anno dopo, quando un congresso nazionale della Dc preceduto da un vertice dei capicorrente promosso a Palazzo Giustiniani dal presidente del Senato Amintore Fanfani, non decise il ritorno dello stesso Fanfani alla segreteria del partito, in sostituzione del suo ormai ex delfino Arnaldo Forlani, e il ripristino governativo del centrosinistra, questa volta senza più il trattino, sotto la guida di Mariano Rumor.
Fra l’uscita di Andreotti da Palazzo Chigi con una maggioranza centrista e il suo ritorno, nel mese di luglio del 1976, alla guida di un governo monocolore democristiano concordato con i comunisti, passarono tre anni e quattro governi, dei quali due presieduti da Rumor con maggioranze di centrosinistra, e due da Aldo Moro. Di cui, a loro volta, uno ancora a maggioranza di centrosinistra, ma composto di soli democristiani e repubblicani, e l’altro monocolore dc per la gestione delle elezioni anticipate provocate dalla decisione del Psi guidato da Francesco De Martino di non avere più rapporti con lo scudo crociato senza l’appoggio dei comunisti.
Conte non ha avuto bisogno né di tre anni né di quattro governi intermedi per disfare una maggioranza e negoziarne un’altra di segno opposto ripresentandosi alla Camera l’ 8 settembre per annunciare «l’inizio di una nuova risolutiva stagione riformatrice, lasciandoci alle spalle - disse- il frastuono dei proclami inutili e delle dichiarazioni bellicose e roboanti».
E per impegnarsi, con tutti i suoi vecchi e nuovi ministri «a ricercare le parole, adoperare un lessico più consono e più rispettoso delle persone, delle diversità delle idee», per cui «la lingua del governo sarà mite».
Già messi duramente alla prova nei primi mesi di vita, questi impegni assunti da Conte per il suo secondo governo avranno già agli inizi del nuovo anno difficili verifiche: termine, quest’ultimo, che si è riaffacciato nelle cronache politiche dopo essere stato archiviato con la cosiddetta prima Repubblica.
Fra l’altro, Conte potrebbe essere scomodamente chiamato a riferire sull’affare Gregoretti, in cui l’ex ministro dell’Interno rischia un processo per sequestro di persona, nella giunta delle immunità del Senato presieduta da Maurizio Gasparri, e non da Ignazio La Russa, come ho scritto qualche giorno fa con un errore imperdonabile di cui mi scuso con i lettori. Sembra che sia stata proprio una comunicazione di distanza o disimpegno di Palazzo Chigi dalla vicenda di quella nave della Guardia Costiera, ferma non certamente di nascosto a fine luglio per tre giorni nel porto di Augusta con più di 100 migranti a bordo, a indurre il cosiddetto tribunale dei ministri di Catania a chiedere il processo, in difformità dall’archiviazione proposta dall’accusa. Con una certa, significativa cautela Conte ha recentemente dichiarato: «Mi pronuncerò a tempo debito. Consulterò le carte e poi parlerò. Per ora si è espressa la Segreteria Generale di Palazzo Chigi che ha dato atto che è stato un tema mai dibattuto nel Consiglio dei Ministri che si è svolto nei giorni della Gregoretti». Prudenza d’avvocato, direi, oltre che di presidente del Consiglio.