PHOTO
Per raccontare anche solo per sommi capi l'interminabile storia del conflitto tra politica e magistratura, sempre latente e spesso palese, ci vorrebbe una serie tv ma di quelle infinite, capaci di inventarsi qualche trovata nuova ogni volta che la trama langue. Stagioni diversi, star diverse e cangianti su entrambi i fronti, sceneggiature spesso capaci di inventare scene madri che racchiudono e sintetizzano l'intera stagione, pardon fase storica. Per esempio la minaccia del presidente Cossiga di far entrare i Carabinieri a palazzo dei Marescialli, sede del Csm, per arrestare l'intero organo di autogoverno della magistratura, nel novembre 1991. Per avvalorare la minaccia Cossiga, un politico che aveva senso della teatralità in abbondanza, mobilitò effettivamente l'Arma e fece disporre i gipponi nei pressi del palazzo. Lo scontro tra il capo dello Stato e le toghe andava avanti già da anni.
C'erano stati tempi nei quali l'inchino del terzo potere di fronte ai politici era stato perenne e puntuale ma erano già lontani. Con la lotta al terrorismo era cambiato tutto. I giudici avevano preso in mano la situazione, e a emergenza finita non avevano alcuna intenzione di tornare alla situazione e anzi erano loro a esorbitare e invadere l'area di competenza della politica. Nel 1985 avevano censurato gli attacchi del premier Bettino Craxi contro i magistrati di Roma e Milano per l'omicidio del giornalista Walter Tobagi. Per Cossiga, appena eletto primo cittadino, esprimersi sul premier spettava al Parlamento, non al Csm. I membri laici del Consiglio si schierarono con Cossiga quelli togati, per protesta si dimisero, salvo poi ritirare le dimissioni su pressione dello stesso presidente della Repubblica.
Il braccio di ferro proseguì ed esplose di nuovo nel 1991, quando il Csm mise all'odg una discussione senza consultare il presidente del medesimo Consiglio, appunto il capo dello Stato. Cossiga dichiarò illegittima la convocazione e vietò la riunione. Il Csm decise di confermare odg e sessione plenaria. Cossiga minacciò di fare arrestare tutti e la spuntò. Fu l'ultima vittoria della politica sulla magistratura.
La successiva scena madre arrivò quasi un anno e mezzo dopo. Pochi mesi sul calendario, un'eternità in politica. C'era stata e ancora c'era tangentopoli. C'era stato pochi giorni prima il referendum sulla legge elettorale ed era una lapide per i partiti della prima Repubblica. Stava nascendo il governo Ciampi Il 26 aprile 1993, quando la Camera votò l'autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi e la respinse le inchieste di tangentopoli avevano già demolito la prima repubblica, distrutto i partiti che avevano governato per decenni, messo in ginocchio l'intera politica. Il voto contro l'autorizzazione a procedere non fu l'ultima resistenza della politica ma l'epitaffio.
Il gelo che calò nell'aula, lo smarrimento palese, la reazione popolare rivelarono quanto la politica fosse ormai al tappeto. Del resto a decidere quella votazione furono probabilmente i deputati leghisti, con l'obiettivo in buona parte centrato di far saltare il nascente governo Ciampi. Non ce la fecero ma il Pds ritirò i propri ministri e le manovre effettivamente in corso per rendere stabile quello che doveva essere quasi un governo ponte in vista delle nuove elezioni, effettivamente in corso, naufragarono quel giorno, probabilmente cambiando il corso della storia italiana.
La storia correva in quegli anni. Appena quattordici mesi dopo il trauma del voto su Craxi al governo c'era Silvio Berlusconi, l'unico tra i tanti clienti e amici di Bettino nei giorni del potere a essere andato a trovare la sera della traumatica votazione. Tentò subito di passare all'offensiva. In luglio il suo governo varò un decreto che limitava drasticamente l'uso della custodia cautelare, l'arma adoperata dal pool di Milano che gestiva l'inchiesta Mani pulite per strappare confessioni e denunce. I magistrati del pool convocarono una conferenza stampa. Quanto a teatralità Antonio Di Pietro, il magistrato di punta del pool, valeva Cossiga. Dissero di non essere più in grado di fare il loro lavoro. Si dimisero. Si abbracciarono commossi.
I partiti alleati di Berlusconi, Lega e An, erano i meno garantisti che il mercato passasse. Avevano portato cappi nelle aule parlamentari, inneggiato a Di Pietro invocando la forca. Non ressero al colpo e costrinsero Berlusconi a una retromarcia che rese di colpo il suo governo fragilissimo. Il colpo di grazia arrivò il 22 novembre dello stesso anno, quando l'ancora per poco premier, a Napoli per una conferenza internazionale sulla criminalità, si ritrovo spiattellata sul Corriere della Sera la notizia di un avviso di garanzia, del quale non sapeva nulla, a suo carico. Un mese dopo non era già più presidente del Consiglio.
Negli anni del governo Prodi, dopo la vittoria del centrosinistra nelle elezioni del 1996, ci fu l'unico tentativo reale di riformare la Costituzione come si dovrebbe sempre fare: senza imposizioni ma col dialogo e la mediazione tra tutte le forze politiche. La commissione bicamerale presieduta dal segretario del Pds Massimo D'Alema andò a un passo dal farcela. L'accordo alla fine e con immense difficoltà era stato trovato su tutto. L'operazione fallì quando la destra insistette per riformare l'intera Carta, dunque anche le sue parti sulla magistratura. I togati non erano d'accordo. Il Pds, nonostante le insofferenze
per l'invadenza delle toghe fosse diffusa anche lì, non se la sentirono di mollare i magistrati. La bicamerale morì lì e la riforma bipartisan della Costituzione pure. Non ci ha provato più nessuno.
Nel 2001 Berlusconi tornò al governo. L'anno successivo Francesco Saverio Borrelli, procuratore di Milano ed ex capo del pool Mani Pulite, inaugurando l'anno giudiziario fu durissimo: 'Resistere, resistere, resistere come su una irrinunciabile linea del Piave'. Resistere contro le riforme che prometteva il governo Berlusconi 'punitive per la magistratura'. Resistere contro i continui rinvii dei processi contro il leader di Fi, 'un oltraggio alla giustizia'. In realtà a resistere, resistere, resistere era piuttosto Berlusconi. Un gioco a rimpiattino proseguito per due decenni, con una pioggia di accuse e imputazioni da un lato, manovre dilatorie e leggi cucite a misura dei suoi guai giudiziari dall'altro: lodo Schifani, legge Cirami, legge ex Cirielli, legge Gasparri, lodo Alfano. Per citare tutti i provvedimenti approvati per fare scudo al Cavaliere ci vorrebbe un'enciclpopedia.
Per arrivare a una condanna contro Berlusconi ci vollero quasi vent'anni da quell'avviso di garanzia del 1994. Arrivò nel 2013 e costò a Silvio la cacciata dal Senato, oltre che una condanna scontata prestando lavori socialmente utili. Nel marzo di quell'anno l'imputato Silvio accusò una malattia agli occhi come legittimo impedimento per non presenziare a un'udienza, costringendo così a rinviarla per l'ennesima volta. I magistrati disposero la visita fiscale. Decine di parlamentari azzurri tentarono di occupare l'aula in cui si svolgeva l'udienza. Cacciati dall'aula occuparono la scalinata del palazzo di Giustizia intonando l'Inno di Mameli. La serie infinita non è aliena a momenti comici o grotteschi.
Lo scontro tra politica e magistratura è proseguito con i governi Conte 1, con il fronteggiamento tra Salvini e le procure sul blocco delle navi Ong che ha portato al processo in corso contro l'ex ministro degli Interni, e Draghi, con l'insurrezione dei giudici contro la riforma Cartabia di cui si è fatto portavoce l'attuale procuratore di Napoli Gratteri. Con Meloni le scintille ci sono state subito. Ora è incendio e non si spegnerà facilmente. Chi abbia vinto sinora tra le due squadre in campo tra trenta e passa anni è impossibile dirlo, essendoci ovviamente state fasi alterne nessuna delle quali risolutiva. Quel che si può dire è che se uno scontro tra istituzioni e tra poteri dello Stato prosegue per tre decenni senza che si riesca a risolverlo fissando punti fermi e delineando paletti a circoscrivere nettamente le aree di competenza a perdere è un sistema. Quello di cui fanno parte sia i giudici che i politici.