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Della morte di suo marito, precipitato da una finestra della questura di Milano il 15 dicembre 1969, Licia Pinelli fu messa al corrente dai giornalisti: Giorgio Bocca, Camilla Cederna e Corrado Stajano si presentarono a casa sua di notte. Non sapeva niente. "Non avevamo tempo", si giustificò la questura. Pino Pinelli, ferroviere anarchico, fermato tre giorni prima nel quadro delle indagini per la strage del 12 dicembre alla Banca nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana, era arrivato in questura da solo, sul suo motorino.
Non avrebbe dovuto trovarsi lì quando volò da quella finestra in circostanze che moltissima hanno cercato con pieno di successo di mantenere oscure: il massimo consentito da legge e Costituzione per il fermo di polizia era scaduto da quasi 24 ore. A nessuno però è mai stato chiesta ragione di quel che a tutti gli effetti era un sequestro di persona e quando Licia Rognoni, vedova Pinelli, provò a chiedere il risarcimento danni, nel 1978, non solo le fu negato ma la condannarono pure a pagare le spese processuali.
Nessuno ha mai dovuto spiegare le bugie dette subito la tragedia: quella ricostruzione con parole tutte uguali, "il balzo felino" del suicida verso la finestra aperta, la confessione in extremis, "E' la fine dell'anarchia". L'uccisione di Luigi Calabresi, il commissario che gestiva l'interrogatorio e che secondo le conclusioni non era nella stanza al momento del volo mortale ma che invece secondo il testimone oculare Pasquale Valiutti c'era, ha lavato le responsabilità di tutti, a partire dal questore Marcello Guida.
Ma anche senza quell'omicidio le cose sarebbero andate allo stesso modo. Licia Pinelli, la vedova che senza mai indossare i panni della vittima ha sin dal primo momento continuato a chiedere invano verità e giustizia, si sarebbe comunque scontrata contro un infrangibile muro di gomma. Il processo seguito alle due denunce si concluse, nel 1977, con la tesi, avanzata dal magistrato più vicino al Pci che ci fosse a Milano, Gerardo D'Ambrosio, con la barezelletta macabra del "malore attivo". Uno svenimento dovuto alle troppe sigarette e al freddo, ma invece di scivolare a terra, l'anarchico sussultò attivamente e finì fuori dalla finestra.
Lui e sua moglie Licia, morta ieri a 96 anni, erano coetanei. Erano tipici esponenti della classe operaia milanese. Lui ex partigiano autodidatta e militante tanto attivo quanto generoso. Lei nata nelle Marche, emigrata a Milano ad appena 18 mesi quando il padre falegname anarchico fu assunto alla Pirelli, cresciuta in una di quelle case operaie troppo strette e col bagno in comune sul ballatoio. Si erano conosciuti a un corso di esperanto, la lingua che nei sogni di allora avrebbe dovuto unificare il mondo. Pino era onnipresente negli ambienti anarchici milanesi ma guardava anche oltre, a quelli che allora si chiamavano "i capelloni" i ragazzini che negli anni '60 preparavano il '68 con riviste come Mondo Beat a cui Pinelli, con l'età dei loro padri, collaborava. Pino e Licia erano così.
Per decenni Licia Pinelli è rimasta la testimone di quella tragedia che scopriva il cuore oscuro della Repubblica. Mai sopra le righe, mai teatrale, sempre rivestita da un coraggio discreto e da una dignità che sono quelli della classe operaia milanese della sua generazione. Lasciata sola, una volta passati gli anni della grande rivolta, non si è mai data per vinta. Ha continuato a chiedere la verità, senza alcuna speranza di riuscirci ma trasformandosi così in una permanente accusa rivolta allo Stato che dopo la strage del 12 dicembre e l'uccisione di Pinelli si era reso responsabile di complicità e depistaggi di ogni sorta.
Licia Pinelli ha lavorato duro per mantenere le figlie rimaste orfane, si è battuta come un leone contro la rimozione che di anno in anno ha sempre più circondato il ricordo di quella tragedia, ha scritto libri di cucina e uno di memorie sulla sua vita dopo quel 15 dicembre, Dopo. Nel 2009, a quarant'anni dalla strage è stata invitata al Quirinale da Giorgio Napolitano che definì suo marito "la diciottesima vittima della strage". Un passo avanti, sia pure ancora troppo poco.
Nel 1982, Licia Pinelli raccontò la sua battaglia perdente contro il muro eretto dallo Stato Una storia quasi soltanto mia. L'amarezza era comprensibile ma quel titolo era lo stesso sbagliato: la storia di Licia Pinelli è di tutti.