Delle dimissioni di Elisabetta Belloni dal Dis, il dipartimento che per legge coordina e monitora le attività di intelligence interne ed estere, si è detto di tutto e di più. Perché si tratta di un vero terremoto, certo, e nel delicatissimo momento in cui è prigioniera in un carcere (famigerato come quello di Evin) a Teheran una giornalista italiana, Cecilia Sala del Foglio e di Choramedia. Caso con il quale sono strettamente connesse le dimissioni dell’ambasciatrice italiana che fu messa ai vertici dell’intelligence da Mario Draghi e confermata da Giorgia Meloni, che le ha poi a suo tempo affidato anche la gestione del G7 a presidenza italiana.

È infatti emerso non solo come Belloni non sia stata “invitata” al vertice di Palazzo Chigi del 2 gennaio sul caso Sala, ma anche dello scontro con il sottosegretario con delega ai Servizi, Alfredo Mantovano, sul fatto che nessuno nei servizi segreti fosse informato, solo pochi giorni prima che il regime di Teheran portasse Cecilia Sala nella prigione di Evin, dell’arresto da parte della polizia italiana, su richiesta dell’Fbi, dell’iraniano Abedini. Un pasticciaccio brutto davvero.

Giorgia Meloni, come è noto, ha preso il dossier nelle proprie mani. È riuscita a farsi invitare nella residenza privata di Donald Trump a Mar- a- Lago per la proiezione di un cortometraggio di propaganda a difesa degli assaltatori di Capitol Hill, ha avuto col presidente eletto un one- to- one, e sta in tutta evidenza cercando di usare la finestra che si apre tra l’arrivo a Roma venerdì prossimo del presidente uscente Joe Biden e l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca giusto 10 giorni dopo, il 20 gennaio, per ottenere il via libera americano a non concedere l’estradizione (che può essere bloccata dal guardasigilli, ovvero dal governo italiano) di Abedini. Del resto, davanti alla pubblica opinione americana, Trump potrebbe poi sempre sostenere che è stata una “debolezza” del suo predecessore. E del resto, se la questione non si risolve sfruttando quella finestra, rischia di divenire inestricabile.

Ma le dimissioni di Belloni come la ventiquattr’ore di Meloni da Trump offrono scenari inusuali sulle relazioni interne al governo. La segretezza della trasferta in Florida della premier secondo alcune fonti sarebbe stata tale anche per la Farnesina, nonostante la presenza evidente a fianco di Meloni in tutte le foto scattate a Mar- a- Lago della ambasciatrice a Washington Mariangela Zappia.

Secondo queste fonti, complici - chissà - i giorni di festa, Tajani non ne sarebbe stato informato se non all’ultimo minuto. Il titolare della Farnesina, del resto, e certo con l’intento di rassicurare la pubblica opinione italiana, nell’immediatezza dell’arresto di Sala aveva pubblicamente dichiarato che la giornalista era trattata bene, ed era “in una cella singola” (naturalmente in qualunque carcere, e figurarsi in uno di massima sicurezza, non esistono “singole”: esiste il regime di isolamento), tanto che il regime iraniano per poter esercitare pressione sul governo italiano era stato costretto a permettere a Cecilia Sala di telefonare nuovamente ai genitori e raccontare le condizioni di detenzione: cella di isolamento, luce accesa h24, niente letto né materasso, per cibo solo datteri.

Per Elisabetta Belloni il caso Sala, con l’intelligence tenuta all’oscuro, sarebbe stata la classica goccia che fa traboccare il vaso. I rapporti col sottosegretario Mantovano erano già ai minimi termini, e con sullo sfondo l’ostilità del ministro degli Esteri, che aveva nutrito una certa insofferenza davanti all’idea di Meloni di affidarle il portafoglio ministeriale degli Affari europei lasciato vacante da Raffaele Fitto. Ma tutte le indiscrezioni circolate sui media, comprese quelle che avrebbero visto Belloni indicata ad ereditare da Fitto anche la delega strategica alla gestione dei fondi Pnrr, erano ballon d’essai. Erano una forma, tipica della politica italiana, di caracter assassination.

Un modo per bruciare un rivale di prestigio. E questo, a partire da quella lontana candidatura di Belloni al Quirinale, nata da Conte e rilanciata prontamente da Salvini, al solo scopo di bruciare - e quella era proprio la serata giusta- la corsa di Mario Draghi al Colle.

Certo, perché circoli un nome occorre il consenso dell’interessato, e per quanto inevitabile quell’errore Elisabetta Belloni deve averlo commesso. Ma il suo è il corsus honorum tipico delle riserve della Repubblica. Stavolta, l’ambasciatrice si è mossa per tempo. “Non ne potevo più”, ha lasciato trapelare. “Non ci sono altri incarichi”, ha dichiarato pubblicamente. Di certo, al momento, non incarichi in Italia. Ma, a 66 anni, l’ambasciatrice fuori ruolo dalla Farnesina, non è ancora in pensione. E altri incarichi, per la donna che non ha solo diretto ma letteralmente inventato l’unità di crisi della Farnesina, potrebbero essercene ancora. Specie se Ursula von der Leyen, quando si sarà ripresa dalla forte polmonite che l’ha colpita, decidesse di dare in qualche modo seguito, e magari con strutture apposite, al lavoro che sul mercato unico e la competitività europea hanno svolto rispettivamente Enrico Letta e Mario Draghi.