L’ipotesi, magari sussurrata solo a mezza bocca, circola in realtà da settimane. Ma, certo, ora che a sorpresa Enrico Letta ha ritirato la sua candidatura alla direzione di Sciences Po, pregiatissima e antica scuola quadri delle élites e postazione alla quale l'ex premier sembrava tenere moltissimo, quelle voci acquistano qualche concretezza in più.

Letta, insomma, sarebbe nella rosa dei papabili per la guida del Consiglio europeo. L'ascesa dell'ex segretario del Pd al secondo scranno per importanza nella gerarchia dell'Unione dopo la presidenza della Commissione, risolverebbe in realtà parecchi problemi. Al Ppe il candidato indicato dal Pse per quella postazione, l'ex premier portoghese Antonio Costa, proprio non piace.

La richiesta di dimezzare il suo mandato con la staffetta, due anni e mezzo prima di cedere il posto a un popolare, è anche una conseguenza di quel giudizio negativo su Costa. Il portoghese è considerato troppo tiepido sostenitore della causa ucraina, in via ufficiale, ma anche troppo sbilanciato a sinistra, in via ufficiosa. Su Letta non gravano ombre simili: il suo atlantismo è tra i più radicali e nessuno lo ha mai sospettato di eccessivo radicalismo. In fondo è un ex democristiano. In circostanze storiche diverse oggi probabilmente sarebbe un alto esponente non del Pse ma proprio del Ppe.

In secondo luogo una presidenza Letta toglierebbe dall'imbarazzo il gruppo europarlamentare socialista. Il Pd ha portato a Strasburgo la delegazione più nutrita eppure, in virtù di una spartizione decisa prima delle elezioni, non accede ad alcuna postazione importante, neppure alla presidenza del gruppo, poltrona che faceva molta gola a Nicola Zingaretti.

Ci sarebbe un mezzo accordo per affidare a un italiano la presidenza del Parlamento dopo la staffetta tra Roberta Metsola, popolare, e un socialista, salvo il particolare per cui i popolari oggi revocano in dubbio proprio quella staffetta pur consolidata dalla prassi. In alternativa, sempre a metà legislatura, un italiano potrebbe subentrare come capo delegazione dell'intero gruppo europeo. Ma si sa come sono le staffette.

La presidenza della Commissione calmerebbe molte tensioni. Ma i vantaggi principali offerti dall'opzione Letta riguardano la manovra, in realtà molto spregiudicata, con la quale Macron e Scholz, con il gruppo del Pse e una parte del Ppe, stanno cercando di relegare Giorgia Meloni nell'angolo dove si affollano quelli che non contano niente. Quella manovra, criticata in realtà da molti capi di governo europei e bollata anche da Bloomberg, deve fare i conti con diversi ostacoli.

Il principale è che Giorgia Meloni non è solo una leader della destra europea ma anche la premier del terzo Paese dell'Unione. Umiliare lei senza umiliare e isolare anche l'Italia, azzardo molto rischioso, è impossibile. Anzi, quasi impossibile: se all'Italia spettasse proprio la presidenza del Conisglio europeo accusare l'Unione di aver punito l'Italia diventerebbe impossibile e anzi, in compenso, le pretese della premier di ottenere un commissario di peso e rilevanza nella commissione verrebbero vanificate. Lei stessa avrebbe difficoltà ad opporsi all'assegnazione di un incarico così prestigioso e rilevante non solo a un italiano ma a un italiano con il quale intrattiene ancora ottimi rapporti. Dovrebbe fare buon visto a cattivo gioco oppure impuntarsi ma con molti meno argomenti di quelli di cui dispone oggi. La beffa potrebbe essere anche più feroce.

La caduta della candidatura Costa travolgerebbe probabilmente anche quella già pericolante di von der Leyen per la presidenza della Commissione. A quel punto la strada per Tajani, probabilmente l'ipotesi migliore per Meloni, sarebbe se non proprio spianata, data la ferma opposizione del Pse, almeno non preclusa. Con una presidenza del consiglio italiana non se ne potrebbe neppure parlare.

Non significa che la marcia di Letta sia facile, e in effetti l'ex segretario del Pd è in predicato anche per altri incarichi, come quello di inviato per il Medio Oriente. Lo sgarbo all'Italia, infatti, sarebbe ampiamente compensato. Quello al governo italiano no e sarebbe anzi ancor più pesante.

Da due giorni, di fronte alle pressioni perché l'Italia firmi la riforma del Mes, che senza l'unanimità resta lettera morta, Giorgetti replica protestando per l'umiliazione di lunedì scorso a Bruxelles: «Chiederci di firmare ora è sale sulle ferite», ha commentato venerdì. È una minaccia che va oltre il Mes: arrivare ai ferri corti con l'Italia significa esporre l'Unione a un rischio continuo di veti e guerriglia parlamentare.

La presidenza Letta permetterebbe, come si è visto, di aggirare molti ostacoli su diversi fronti ma non scioglierebbe questo nodo, il più aggrovigliato di tutti, e rischierebbe anzi di rendere la faida irresolubile. L'ipotesi c'è ed è reale. Ma ancora molto lontana dalla certezza.