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alato il sipario sulla Leopolda 10, volano gli ultimi stracci tra gli ex compagni di viaggio del Pd e di Italia Viva.
Anche senza la chiosa polemica di Maria Elena Boschi, che ha parlato dei dem come di «partito delle tasse», la distanza tra i due schieramenti oggi riottosi alleati è plastica. La cifra del nuovo partito applaudita alla Leopolda è di puro stampo macroniano: leader forte al comando; addio al gergo politico novecentesco della sinistra, massicce dosi di riformismo ed europeismo.
Nessun accenno, invece, al refrain che è pur nella sua conclamata difficoltà comunicativa - il mantra di Nicola Zingaretti recuperato dalla sinistra classica: ridurre le disuguaglianze sociali. Idealmente, dunque, due pantheon ben diversi allontanano gli «ex amici», come li ha definiti Matteo Renzi. Anche nelle prospettive elettorali: Renzi si è apertamente rivolto ai liberali moderati di Forza Italia, chiamando esplicitamente a raccolta nel suo movimento tutti quelli che non si sono riconosciuti nella piazza salvinian- sovranista di San Giovanni ( in particolare Mara Carfagna è stata voce dissonante davanti alla scelta forzista di aderirvi).
Zingaretti, invece, segue silenziosamente una traiettoria divergente: il Pd punta tutto sulla imminente disgregazione dei 5 Stelle, di cui punta ad accaparrarsi elettorato e anche una parte di classe dirigente considerata “di sinistra”, come quella stretta intorno al presidente della Camera, Roberto Fico. Una Italia Viva in corsa verso il centro, un Pd invece aperto a sinistra: idealmente è plausibile e anche sostenuto dai fatti, in pratica invece le incognite rimangono molte.
Una in particolare, la legge elettorale. Con un proporzionale, Italia Viva potrebbe essere in grado di ritagliarsi uno spazio ed essere potenziale ago della bilancia. Con un maggioritario, invece, la polarizzazione sarebbero i due poli tradizionali di una destra a trazione salviniana contro il centrosinistra. Unica incognita: se i 5 Stelle saranno ancora un blocco alleato del Pd oppure se finiranno per scindersi in due schegge catalizzata una verso destra ( Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio) e l’altra verso sinistra ( Giuseppe Conte e Roberto Fico).
In questo caso, a fare la parte del vaso di coccio sarebbe proprio Italia Viva. Le variabili, tuttavia, sono ancora troppe: la prima, l’esito del voto in Umbria, che nella sua anomalia darà comunque un primo riscontro del gradimento dell’alleanza Pd- 5 Stelle. La seconda, una riforma della legge elettorale che per ora ( dopo l’approvazione del taglio dei parlamentari) è sparita dall’agenda. La terza, la solidità del governo a guida di Giuseppe Conte, il quale ha peccato di personalismo nel volersi intestare la manovra economica e ora sta cercando di recuperare feeling con la sua maggioranza.
Proprio Conte, tuttavia, potrebbe essere il nuovo bersaglio dello “stai sereno”. Il premier e Matteo Renzi non si sono mai piaciuti e il leader di Italia Viva ha spesso lamentato la freddezza di Conte, che lo farebbe sentire terzo estraneo nella compagine di governo. Renzi, che in politica ha sempre brillato per la capacità tattica e che rivendica la regia della nascita di questo governo, potrebbe giocare l’ennesima mossa del cavallo: ottenere, in asse con Luigi Di Maio ( oscurato e infastidito dall’attivismo di Conte), un rimpasto di governo che riguardi soprattutto un nuovo premier.
A presentare l’occasione sarebbe stato soprattutto il passo falso di Conte con la legge di Bilancio: la sua fuga in avanti non è piaciuta ai 5 Stelle ed è stata avallata solo dal Pd. Risultato: per mandare avanti la legislatura serve un nuovo premier che rifletta gli equilibri post scissione e Renzi non avrebbe difficoltà a lasciare Palazzo Chigi a un grillino doc ( come Di Maio), che in cambio riconoscerebbe a Italia Viva il ruolo di invitato alla pari al tavolo del governo.
Del resto, nel suo discorso di chiusura, Matteo Renzi ha detto che il Parlamento finirà la legislatura ed eleggerà il prossimo presidente della Repubblica, ma non ha accennato nulla sul governo.
L’unica certezza, tuttavia, rimane una: l’unica cosa che tutta la maggioranza non vuole sono le urne.