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Umberto Bossi e Silvio Berlusconi
Anche al netto delle smentite, precisazioni e simili, quando ci sono, nel racconto delle tensioni nel condominio del centrodestra prevalgono generalmente i problemi fra la premier Giorgia Meloni e il suo vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini. I problemi esistono, per carità, ed hanno un rilievo istituzionale importante perché vi è coinvolta la pur sicura di sé presidente del Consiglio. Ma mi sembrano secondari rispetto a quelli, pur meno rilevanti nell’apparenza, fra i due vice presidenti del Consiglio. Che sono il già ricordato leghista Salvini e il segretario forzista Antonio Tajani, immaginato da Emilio Giannelli nella vignetta di ieri sulla prima pagina del Corriere della Sera sulle gambe della premier alla quale chiede di “legare” un Salvini in versione animalesca che abbaia e ringhia forse ad entrambi.
Sui problemi fra la Meloni e Salvini, che si contendono addirittura un rapporto più o meno privilegiato con la Casa Bianca di Donald Trump, scommette ogni tanto la segretaria del Pd Elly Schlein sperando, in particolare, di ricavarne prima o dopo una crisi di governo. E magari anche una sua gestione “appropriata” da parte del capo dello Stato Sergio Mattarella.
Ma, sempre nel Pd, il più esperto e consumato Dario Franceschini, chiuso nella sua officina romana all’Esquilino, mi sembra scommetta di più sull’esplosione dei rapporti fra i due vice presidenti del Consiglio direttamente, forse confortato da qualche analogia galeotta fra la situazione politica di queste settimane e quella pur tanto diversa dell’estate 1994. Quando cominciarono a scricchiolare i rapporti tra forzisti e leghisti, o più direttamente fra un Silvio Berlusconi ancora fresco, o quasi, di nomina a presidente del Consiglio, e un Umberto Bossi in canottiera, pigiama e altro già insofferente dell’alleanza che aveva stretto col Cavaliere per vincere le elezioni anticipate.
Franceschini, in particolare, fra le varie interviste rilasciate da quando ha rinunciato a sostenere l’intesa pre-elettorale del Nazareno con Giuseppe Conte, ha mostrato di confidare che prima o poi Antonio Tajani si accorga di quel biglietto della lotteria che avrebbe in tasca e gli permetterebbe già in questa legislatura, o nella prossima, di essere l’arbitro di qualsiasi governo, accordandosi col Pd piuttosto che con la Meloni e Salvini.
«La carne è debole», diceva il mio amico Giulio Andreotti quando scherzavamo sulla politica “dei due forni” che avversari ma anche amici, piuttosto compiaciuti, gli attribuivano per consentire allo scudo crociato di non dipendere solo dal Psi o dal Pci nella formazione delle maggioranze e dei relativi governi, che peraltro con l’appoggio dei comunisti riuscivano ad essere monocolori democristiani.
Forse Franceschini sarà rimasto troppo democristiano, ma la sua scommessa sulla pazienza esauribile di Tajani, peraltro tallonato da figli ed eredi di Silvio Berlusconi ogni tanto tentati dalla politica, si basa forse sul ricordo proprio dei rapporti, già accennati, fra lo stesso Berlusconi e Bossi.
Che ad un certo punto, nell’autunno del 1994, allertato anche da Oscar Luigi Scalfaro che lo riceveva al Quirinale, si accorse che il presidente del Consiglio si difendeva dalle sue incursioni su nomine, riforma delle pensioni e altro facendo opera di persuasione e simili fra i parlamentari leghisti timorosi di una crisi e di rovinose elezioni anticipate, compreso il vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Roberto Maroni. Fu anche o soprattutto per interrompere quella che gli sembrava una tresca che Bossi, rassicurato da uno Scalfaro contrario in quel momento alle elezioni anticipate, decise di staccare la spina al governo e di provocarne la caduta.
Ora, fatte - ripeto- tutte le debite distinzioni fra il 1994 e oggi, è Tajani che ha cominciato ad aprire le porte di casa a parlamentari e amministratori leghisti poco convinti della concorrenza del loro Capitano alla Meloni sul versante elettorale di destra.