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Draghi
Le battaglie, o anche solo le partite importanti, non si combattono in un solo giorno. Per dire l'ultima parola sugli esiti della sfida forse sin qui più azzardata del premier Mario Draghi, l'introduzione di una misura drastica inesistente nel resto d'Europa come il Green Pass obbligatorio per tutti i lavoratori, bisognerà attendere alcuni giorni. Ma senza dubbio il capo del governo si è aggiudicato la fondamentale prima mano, mettendo così una solida ipoteca sul risultato complessivo. Ci sono stati scioperi e manifestazioni, come era inevitabile, ma non di dimensioni tali da costituire quei problemi per l'ordine pubblico e le attività produttive che si temevano alla vigilia.È una vittoria del metodo Draghi, che però non è un'invenzione del premier ma una chimera che molti leader italiani hanno inseguito invano. Agli esordi, negli anni '80 del secolo scorso, lo avevano battezzato “decisionismo”, con riferimento a un unico e solo leader politico: Bettino Craxi. Il socialista si presentava come uomo forte, capace di scegliere senza cedere ai ricatti. Segnò un punto importante, in questo senso, imponendo il blocco della scala mobile anche a costo di sfidare la Cgil e il Pci. Tentò anche di ridisegnare gli assetti istituzionali per rendere più agevole, o anche solo possibile, “il decisionismo”. Non ci riuscì e la chimera rimase tale per tutti i successori che ambivano allo stesso risultato. Finirono tutti rallentati, spesso paralizzati, costretti a estenuanti mediazioni dalla composizione stessa della società italiana, dove anche solo aver ragione di una sola categoria, come per esempio i tassisti romani, è missione impossibile. Ma in realtà a impedire ogni forzatura decisionista erano le stesse dinamiche della politica italiana, divisa non sono in partiti ma anche in correnti, in rappresentanze trasversali di interessi parziali.Il passaggio alla seconda Repubblica non sciolse il nodo. Per due decenni gli alti lai di Silvio Berlusconi contro i “lacci e lacciuoli” che a suo dire impedivano di governare come si deve sono stati un controcanto continuo. Nella confusa fase seguita al crollo di quella seconda Repubblica nata già fragile è stato soprattutto Matteo Renzi a tentare l'arrembaggio, seguito poi ma in modo un bel po' caricaturale da un altro Matteo, quello che guida la Lega. A decretare il fallimento di Renzi non sono state le manovre del Palazzo ma il pollice verso di un popolo italiano contraddittorio come nessun altro, sempre pronto ad acclamare il generalissimo di turno ma anche più veloce nell'abbatterlo quando dimostra di prendere troppo sul serio quelle acclamazioni. Mario Draghi è il primo capo del governo sul quale gli abiti thatcheriani calzano bene. I motivi di questo successo sono molti: la sua effettiva distanza dalle abitudini dei politici. Il muoversi in un campo già molto dissodato dal secondo governo Conte. La contingenza emergenziale tanto sul piano sanitario quanto su quello economico. La debolezza della politica, che aveva superato il punto di non ritorno ben prima dell'arrivo di Draghi. Tanti addendi per una somma chiara: Draghi decide con i suoi stretti collaboratori, senza mai mostrare disprezzo, anzi, ma anche senza mai farsi spingere su percorsi diversi da quelli decisi. È questo stile che si è palesato, non per la prima volta ma in forma eminente, nell'occasione corrente. I partiti avrebbero preferito trattare, concedendo almeno una diminuzione del prezzo dei tamponi. I sindacati hanno insistito sino all'ultimo. La stessa Confindustria si muoveva sulla stessa linea. Draghi non ha concesso niente. Il calmiere sui tamponi probabilmente arriverà ma non ora: proprio per chiarire che non si tratta di un cedimento alle proteste sociali o alle paure dei partiti. Il plauso è generale. Da una testata all'altra, da un esponente della maggioranza (ala centrosinistra) all'altro rimbalzano elogi stentorei. Finalmente un premier che non media, non si spaventa, non rallenta né modifica la rotta. Sono reazioni comprensibili, date le abitudini paludose nelle quali ha spesso vegetato la politica in Italia. Ma la medaglia ha il suo rovescio: liquidare le parti sociali con un secco “ci penseremo” quando va molto bene, e di solito senza neppure questo, significa impostare un modello di direzione che prescinde di fatto dal rapporto con le forze sociali. Ignorare le richieste dei partiti equivale a troncare di netto il poco che resta del modello sostanziale della già esangue democrazia parlamentare. Il rischio che dalla crisi Covid esca un'Italia molto diversa da quella immaginata dai costituenti è non solo concreto. È già quasi una certezza.