Forse bisognerebbe abituarci a inquadrare le neo-destre nazionaliste e identitarie come un fenomeno costante del nostro panorama politico e non come una fugace anomalia del sistema. È un tipico meccanismo difensivo pensare di superare un trauma liquidandolo come un male effimero, e che sarebbe bastato vaccinarsi, come disse Montanelli di Berlusconi, per lasciarselo alle spalle.

Da Parigi a Roma, da Budapest a Vienna, da Amsterdam a Berlino, il successo elettorale delle forze “patriottiche” rappresenta al contrario già una seconda ondata e non può più sorprendere nessuno. Come nessuno potrebbe sorprendersi di un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca il prossimo novembre, e questo al di là delle tragiche condizioni in cui versa il suo avversario Joe.

La normalizzazione del populismo è segnata anche dalla sua alternanza tra governo e opposizione (come nel caso della Polinia), anche dalle sue evidenti sconfitte come è stata la Brexit, una follia di cui gli elettori britannici oggi incolpano i conservatori dello scialbo Sunak destinati a una débâcle di proporzioni storiche alle elezioni politiche di giovedì prossimo. Anche l’esperienza giallo-verde in Italia è stata un chiaro fallimento, ma al declino personale di Matteo Salvini ha corrisposto l’ascesa di Giorgia Meloni e del suo partito che ne costituisce una versione 2.0 e decisamente più smart.

Prosperando sulle macerie della crisi economica ma soprattutto sulla crisi di identità della destra cosiddetta classica, dai liberal-liberisti ai cristiano-sociali, dai gollisti ai tories, i partiti nazionalisti, le formazioni nazionaliste sono diventate in molti paesi occidentali la casa principale dell’elettorato conservatore, l’alternativa più credibile ai liberali e alle sinistre. Unite dallo scetticismo nei confronti dell’Unione europea, dal rifiuto dell’immigrazione, dalla richiesta di ordine e sicurezza, dal relativo disinteresse per i diritti civili e per i temi ambientali.

Questo è vero in particolare per Fratelli di Italia e per il Rassemblement National ma anche per l’Fpo in Austria o per il Pvv di Gert Wilders in Olanda. Discorso un po’ diverso per la Germania dove l’Afd è sì in netta crescita, ma molto più isolata a livello politico e sociale dei suoi consimili europei per via delle sue posizioni apertamente filo-naziste, ferite ancora aperte oltre Reno.

In Francia invece l’antico tabù che per quarant’anni ha escluso l’extrème droite dalle istituzioni si è letteralmente sbriciolato nelle urne; il Rassemblement National di Marine Le Pen e del rassicurante Jordan Bardella ha quasi raddoppiato i voti rispetto alle legislative di due anni fa (passando al 18% al 33%) ed è largamente il primo partito, il più votato dalle classi medie, dalla piccola borghesia rurale, dai commercianti, dai piccoli imprenditori, dalle professioni liberali, insomma dal vecchio bacino gollista.

La sociologia del voto al Rn è quella di una forza di centrodestra e pronta a governare, i suoi quadri d’altra parte studiano il copione da tempo, Bardella in primis, incarnando la rottura con la vecchia tradizione anti-repubblicana del Fn, con il folklore e la paccottiglia estremista e nostalgica alla Zemmour: «Non sono di estrema destra, non sono fascista, mi sento erede dalla Francia di De Gaulle e non certo di quella di Vichy», ha detto Bardella, tracciando un profonda linea di demarcazione con il vecchio arsenale ideologico frontista.

Se la mutazione antropologica del partito che fu fondato mezzo secolo fa da Jean Marie Le Pen non è ancora del tutto compiuta, se rimangono ancora incrostazioni xenofobe e una strisciante islamofobia, i suoi elettori la ritengono più che sufficiente per accordargli un’ampia fiducia e per gettare nella pattumiera della Storia il consenso agli sbiaditi post-gollisti che, dopo la caduta di Sarkozy per via giudiziaria, sono diventati una presenza marginale della politica francese. Un altro caso di sparizione politica.

È possibile, anche se è uno scenario complicato, che ai ballottaggi di domenica prossima il fronte repubblicano (i partiti della sinistra e i macroniani in ordine sparso), riesca a sbarrare la strada a Le Pen e Bardella, impedendo al Rn di conquistare la maggioranza assoluta in Assemblea Nazionale e tenendolo ancora per tre anni fuori dalla stanza dei bottoni (le prossime presidenziali nel 2027).

Ma nessuna manovra politicista, nessuna trama di corridoio, nessuna coalizione precaria e raccogliticcia, potrà scalfire l’egemonia crescente del Rn sulla società francese e, in generale, l’influenza permanente della destra identitaria sulla politica europea.