Nella teatralità della politica italiana, dove tutto viene sempre contrabbandato per evento di portata storica, rischia di non ottenere la giusta rilevanza lo strappo operato da Elly Schlein con la decisione di opporsi al piano di riarmo europeo presentato da Ursula von der Leyen.

Per cogliere la portata di un simile passo bisogna guardare all’intera parabola del Pd, dalla sua fondazione nel 2008 a oggi. Il partito nato con una mai realizzata “vocazione maggioritaria” non ha mai trovato una sua vera e ben definita identità politica. Ha supplito a questo vuoto proponendosi come una sorta di “partito delle istituzioni”: il più europeista di tutti, mai davvero in conflitto anche timido con Bruxelles, il più vicino di tutti alla presidenza della Repubblica, la cui parola è stata sempre legge. Ha tratto identità e dunque ragion d’essere dall’appartenenza al Pse, all’interno del quale non si è quasi mai distinto se non per uniformità alle scelte dell’eurogruppo Socialisti e Democratici, del quale è peraltro la delegazione più numerosa. Si è sempre più riconosciuto nell’impostazione di Mario Draghi, diventato negli anni della segreteria Letta il principale punto di riferimento, e ha sempre considerato padre fondatore, dunque voce molto più che semplicemente autorevole, Romano Prodi. Il solo tenativo di scartare dotando il Pd di una identità diversa è stato quello di Matteo Renzi e si sa come è andato a finire. In un colpo solo la segretaria outsider ha scelto di rompere con tutti i suoi eterni punti di riferimento.

Per il Pd opporsi a un progetto destinato a costituire il dna dell’Unione negli anni a venire è di per sé un trauma e uno strappo violento. È vero che le posizioni dell’opposizione pesano molto meno di quelle del governo, non avendo valenza decisionale, ma di fronte a una divaricazione simile su un tema oggi più decisivo di qualsiasi altro è inevitabile che la Commissione faccia affidamento sempre più sulla premier, ora bastione non solo contro le intemperanze leghiste ma anche contro una sinistra troppo influenzata dalla sua ala pentastellata e dalla sinistra di Avs. La presa di distanza in aperto dissenso di Paolo Gentiloni, ex commissario europeo e tra i nomi eccellenti del Pd quello più vicino a Bruxelles, è eloquente.

La lacerazione è tanto più clamorosa perché va nella direzione opposta a quella indicata dal presidente della Repubblica. La cautela di Mattarella è nota: il capo dello Stato ha sempre la massima attenzione nel non varcare neppure di un millimetro i confini del proprio ruolo istituzionale. Ma sia pure all’interno di quei limiti le posizioni che ha assunto negli ultimi giorni dal Giappone indicano un’urgenza opposta a quella della segretaria. Se la situazione è tanto grave quanto Mattarella la descrive e la necessità di armare l’Europa di così vitale importanza, bocciare il ReArm Europe con una tipica argomentazione “benaltrista”, il suo non essere ancora un esercito europeo ma solo il riarmo di 27 Paesi, è risibile. La realtà è che per la prima volta nella sua storia il Pd imbocca una via opposta rispetto a quella indicata dal Colle.

Nel Pse gli italiani sono quasi isolati, potendo contare solo sui socialisti spagnoli e anche in quel caso probabilmente con qualche riserva. L’anatema di Prodi, arrivato domenica scorsa, è esplicito. Solo l’esercito europeo può impedire nuove aggressioni russe ma il primo passo verso quell’esercito comune è proprio il riarmo che Elly contrasta perché non si tratta ancora di quell’esercito. Una sconfessione in piena regola e da parte di un padre nobile che aveva invece sino a poco fa sempre protetto la segretaria.

Lo strappo è dunque di portata immensa perché non riguarda solo un tema già determinante come la guerra e il riarmo dell’Europa ma anche l’identità stessa del Pd. La ricaduta all’interno del partito, pur tenuta sinora in sordina, è inevitabile e squassante. «Questa volta non intendiamo mollare» dice apertamente il leader della minoranza Alessandro Alfieri e Luigi Zanda propone un congresso eccezionale sul tema.

La segretaria è tra due fuochi. Se si piegherà alle pressioni interne e soprattutto esterne che le intimano il ripensamento la distanza tra il suo partito e quello di Conte, che ieri ha radicalizzato ulteriormente il suo dissenso dalle scelte europee affermando che «il ReArm rischia di portarci in guerra», diventerà incolmabile e la segretaria teme un impatto devastante anche nelle prossime regionali. In realtà una rottura sulle regionali è comunque poco probabile ma la spaccatura del centrosinistra sul tema centrale nella politica mondiale sarebbe comunque un de profundis in vista delle future elezioni politiche. Ma d’altro lato rompere con la propria intera storia, i propri referenti internazionali e la minoranza interna potrebbe avere effetti ancora più devastanti dello scontro con Conte.