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E alla fine, in chiusura di un anno che definisce «intenso», in cui cose importanti son state fatte ma con la pesante eredità delle «diseguaglianze, e con il rischio di povertà ed esclusione sociale a livelli allarmanti», Sergio Mattarella tirò fuori le unghie. Un incalzante e fermo monito è tornato a calare dal Colle sui politici italiani che ieri affollavano il Salone dei Corazzieri. Qualcuno sonnecchiava, qualcuno smanettava sul telefonino ( niente nomi, per carità di patria) mentre Mattarella sferzava con una gravità di parole sin qui perfettamente inedita: attenti a toni in campagna elettorale, «guardare al domani», pensare ai problemi del Paese. Non affrontate, o voi politici, le elezioni combattendovi su piccolezze - quando si sa che poi magari dovrete collaborare al governo, è il sottinteso - perché «il ruolo della politica e l’oggetto del confronto deve essere la visione del Paese». Di più, «è indispensabile dotarsene» : è come se il capo dello Stato accusasse i politici di non averla, quella visione. Di non avere quel che è invece richiesto, «coraggio e lungimiranza», «obiettivi e percorsi adeguatamente approfonditi». Di non avere l’indispensabile «responsabilità repubblicana». In soli dieci intensi minuti di discorso, Mattarella ha indicato alla classe dirigente politica e istituzionale qual è il compito: affrontare la competizione elettorale che è alle viste con «proposte comprensibili e realistiche, e capaci di suscitare fiducia». Tutto il contrario, si direbbe, di quanto sta già accadendo.
Delle due rituali occasioni in cui il presidente della Repubblica rivolge alla politica il proprio pubblico discorso, e cioè la cerimonia del ventaglio di inizio estate e gli auguri ufficiali di fine anno, la più attesa è sempre la seconda. Quest’anno, attenzione concentrata perché si è alla vigilia di un delicatissimo passaggio elettorale, ed è accreditata da ogni sondaggio la tesi che sarà foriero di ingovernabilità. Un passaggio che segnerà anche il vero debutto in scena, la prova del fuoco della presidenza Mattarella: per il semplice motivo che, nell’esercizio di un ruolo che si dice “a fisarmonica” perché rimpicciolisce o giganteggia a compensazione dei pieni o dei vuoti degli altri poteri, la formazione di un governo è il momento in cui è il capo dello Stato ad essere costituzionalmente il dominus.
Dal discorso di ieri davanti alle Alte Cariche e al Gotha del mondo politico ( assente Renzi, si vocifera per broncio sulla riconferma del governatore della Banca d’Italia, ma Renzi marinò volentieri il rituale anche con Napolitano) si intuisce come il Quirinale affronterà il passaggio. Pugno di ferro in guanto di velluto, la parola d’ordine è “ordinato svolgimento”. Delle elezioni e dei passaggi successivi. Quale che sia l’esito delle elezioni, è il ragionamento di Mattarella, la stabilità c’è. Garantita non solo dallo stesso presidente della Repubblica, il cui mandato dura 7 anni e non è soggetto a interruzioni, ma anche dal governo uscente che resta in carica per il “disbrigo degli affari correnti”. Mattarella ha tenuto proprio per questo a che Gentiloni non ricevesse un voto di sfiducia dal Parlamento. La fase di stallo potrebbe essere lunga, ma occorre ricordare che per la nascita del governo Letta ci vollero 127 giorni, e 125 per il governo Dini, 121 per il primo governo Andreotti, e così a ritroso nella storia repubblicana. E il tutto in tempi in cui non solo per dare un inquilino alla Moncloa ci son voluti 6 mesi, ma è addirittura Angela Merkel a dire che ci sarà un governo a Berlino forse per Pasqua. Certo, poi ci potrebbe essere un problema che qualche commentatore ha sbrigativamente chiamato “prorogatio”. Ebbene, senza nessuna incostituzionale prorogatio, i governi che han retto il Paese col disbrigo degli affari correnti e senza dar dimissioni son stati l’ultimo Berlusconi, il penultimo Amato, quello di Ciampi, il terzo di Moro, il quarto Fanfani, il secondo Zoli, su su fino a De Gasperi e al 1953.
Certo, le dimissioni sono obbligatorie nel momento in cui si insediano le Camere ( per non dire che un presidente del Consiglio è automaticamente dimesso al momento dell’incarico al suo successore). Me, se non si riesce a comporre un governo, aiuta il calendario. Se si vota il 4 marzo, con gli adempimenti necessari, si comincerà a lavorare al nuovo governo ai primi di aprile. Se si dovesse andare nuovamente ad elezioni, si arriverebbe a ottobre, trovando possibilmente un’occasione in cui al governo degli affari correnti possa esser confermata la fiducia. Si spera certo di non dover arrivare a tanto. E da questo punto di vista, sotto osservazione è la tenuta del Pd. Se fosse tracollo? Beh, si mormorava dalle parti del Colle l’altro giorno, Gentiloni potrebbe certo restare, ma i ministri... Si naviga a vista, a Roma come nelle altre capitali occidentali. Ma avendo la rotta ben chiara, almeno lassù dal Colle.