Avevano annunciato che avrebbero atteso l’intervento di Mario Draghi prima di prendere una decisione e così è stato: il Movimento 5 Stelle ha ascoltato il premier e scelto di non partecipare al voto di fiducia. Eppure, fino a poche ore prima, dal quartier generale pentastellato, come dal Nazareno, prevaleva l’ottimismo: lo strappo in un modo o in un altro sarebbe stato ricucito, era la convinzione di molti esponenti dem e pentastellati (falchi compresi).

A Giuseppe Conte sarebbe bastato un piccolo segnale d’apertura per tirare il freno a mano, o almeno questa era la certezza che il giorno prima veniva riferita da ambienti vicini all’ex premier. Invece, «abbiamo visto un atteggiamento sprezzante, abbiamo ricevuto anche degli insulti», dice in serata il presidente del M5S. «C’è stata la volontà di cacciarci fuori, siamo diventati il bersaglio di un attacco politico, siamo stati messi alla porta», argomenta Conte dopo una giornata sulle montagne russe.

L’avvocato (e forse anche Enrico Letta, che da giorni lavorava a una mediazione) aveva probabilmente sottovalutato il piglio del suo successore a Palazzo Chigi, indisponibile a scendere a patti con le forze politiche e rimanere impantanato nelle sabbie mobili dei veti incrociati. Di certo, però, nessuno si aspettava la durezza con cui Draghi ha deciso di affrontare il Parlamento, assestando colpi secchi e precisi ai partiti della sua maggioranza.

La corsa ai rigassificatori per una questione di «sicurezza nazionale», l’annuncio di nuove armi all’Ucraina, il colpo al Reddito di cittadinanza da cambiare, la sberla al superbonus da rifinanziare ma senza la stessa «generosità» ha fatto sbarrare gli occhi ai senatori pentastellati, già poco inclini a concedere una nuova fiducia all’ex presidente della Bce. Perché è su queste premesse che il premier chiede alle forze politiche di sottoscrivere un nuovo «patto di fiducia». Prendere o lasciare, lo «chiedono gli italiani». Per i grillini è uno smacco inaccettabile, non hanno più margini per giustificare un’eventuale retromarcia e tornano sulle barricate, con buona pace dell’alleanza con i dem.

«Ero capogruppo durante la prima fiducia al suo governo e le dissi di non considerare la nostra fiducia incondizionata», dice il senatore Ettore Licheri intervenendo in Aula dopo il discorso di Draghi. «Lei sarà davvero capace di essere il garante di questo governo di unità nazionale, sentendo le voci del capogruppo di Lega e Fi? Come farà a spiegare loro che la transizione ecologica non è uno slogan, che significa nuovi modelli economici e aziendali, un futuro fatto di prosperità?», incalza l’esponente 5S. «Dal suo discorso abbiamo capito che non c’è ancora una risposta alle nostre istanze», dice, chiedendo al premier di dare «dignità» politica ai 9 punti programmatici consegnati da Conte nei giorni scorsi.

La rottura diventa insanabile, anche perché nel frattempo a velocizzare e drammatizzare la crisi c’è anche il centrodestra, a sua volta duramente redarguito dal premier, che all’ora di pranzo replica a Draghi mettendo sul piatto nuove priorità programmatiche e una condizione indigeribile: sì a un nuovo governo, a patto che escluda il Movimento. È il “tana liberi tutti”, la maggioranza si è praticamente sgretolata. E la replica pomeridiana dell’inquilino di Palazzo Chigi non fa che peggiorare la situazione. Draghi non ha alcuna intenzione di smussare gli angoli, anzi risponde alle «proteste non autorizzate» ( espressione utilizzata nel corso dell’informativa del mattino) dei pentastellati con un tono ancora più duro.

Il superbonus? «Il problema sono i meccanismi di cessione», ribatte. «Chi li ha disegnati senza discrimine o discernimento? Sono loro i colpevoli di questa situazione per cui migliaia di imprese stanno aspettando i crediti». Tradotto: la colpa è proprio dei grillini che hanno scritto la legge con i piedi. È un nuovo dito nell’occhio che segna la fine. Sarà la capogruppo Mariolina Castellone a certificarla col suo intervento in Aula. «Chiedere una delega in bianco mortifica il nostro ruolo e la democrazia parlamentare», dice la senatrice contiana, accusando il premier di aver voluto far precipitare la situazione senza alcuna giustificazione, potendo contare ancora su una maggioranza molto ampia. Una reazione immotivata, secondo Castellone, visto che in passato, davanti alla mancata fiducia della Lega sul green pass e di Italia viva sulla riforma Cartabia, Draghi non pensò di aprire formalmente nessuna crisi. «Togliamo il disturbo», conclude la capogruppo, «ma ci saremo sempre quando si tratterà di votare provvedimenti utili».

I grillini non partecipano al voto ma restano in Aula, a differenza dei colleghi del centrodestra, per non far mancare il numero legale. Il governo ottiene comunque la fiducia col sì di quelli che sono rimasti. Ma la maggioranza non c’è più. Anche se oggi alla Camera, dove gli equilibri sono diversi, potrebbe aprirsi una nuova partita. Il Movimento perderà un’altra ventina di pezzi filo draghiani, che sommati agli scissionisti di Di Maio fanno un bel gruzzoletto. Non serviranno a far cambiare idea a Draghi, ma qualcuno ci spera ancora.