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«Sistemeremo tutto». Matteo Salvini, incalzato dai cronisti, ostenta nonchalance, ma la questione Vannacci, innegabilmente, a Strasburgo è già deflagrata. Mentre il diretto interessato glissa in modo maldestro le domande, preferendo parlare della “vannaccizzazione” di Giorgia Meloni dopo il voto su von der Leyen e di situazioni “fluide” non affrancandosi dal personaggio, il segretario cerca di capire se è possibile rimediare allo stallo che si è creato sulla nomina del Generale a vicepresidente del gruppo dei Patrioti.
Una nomina da lui fortemente voluta, come d'altra parte la stessa candidatura alle Europee, ma mentre in quest'ultimo caso Salvini aveva il potere per imporre l'inserimento di Vannacci come capolista, nel caso dell'Europarlamento ha dovuto fare i conti con chi ha ricevuto dal voto europeo la legittimazione quale guida dei sovranisti Ue, e cioè il Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella, che non a cado è stato designato presidente.
E proprio i francesi, come è noto, hanno posto il veto sulla vicepresidenza al Generale, per evitare imbarazzi rispetto ad un'opinione pubblica interna che, come visto al secondo turno delle Legislative, mantiene ancora la guardia alta nei confronti delle affermazioni degli esponenti di Rn sui diritti civili e sulla tutela della comunità lgbt. Da questo punto di vista, Salvini ha dovuto fare i conti con l'amara realtà del drastico ridimensionamento della Lega nel contesto europeo, dopo che nella scorsa legislatura il Carroccio aveva sfondato quota 30 per cento presentandosi come principale forza dell'eurodestra. Il vicepremier non può ribellarsi alla legge dei numeri, dunque, così come non può creare l'incidente diplomatico coi suoi principali alleati continentali in principio di legislatura, lasciando trasparire in qualche modo del malumore per la rigida presa di posizione dei transalpini.
L'imbarazzo maggiore, però, l'affaire Vanancci, a Salvini lo sta creando dentro al partito, perché il marchio di “inadatto” a ricoprire ruoli di responsabilità affibbiato da Bardella e compagni tocca un nervo scoperto e potrebbe rinfocolare delle polemiche interne che sembravano sopite dopo lo straordinario risultato conseguito dal militare con mezzo milione di preferenze. Il riferimento è ai numerosi mal di pancia manifestati a suo tempo da autorevoli esponenti della Lega (anche della parte più leale al segretario) circa l'opportunità di proiettare all'esterno come frontman del partito un parvenu, un non iscritto, scavalcando decine di militanti storici che hanno fatto la gavetta nelle istituzioni minori e negli enti locali, e che avrebbero meritato maggiore considerazione.
Le prese di posizione in questo senso, in campagna elettorale, si sono sprecate, e se una parte di queste erano di natura strumentale poiché provenivano da settori del partito in aperta contrapposizione con l'attuale gruppo dirigente (vedi l'ex-parlamentare Paolo Grimoldi, poi espulso) altre invece provenivano da figure al di sopra di ogni sospetto, come l'ex-ministro Gian Marco Centinaio o il capogruppo al Senato Massimiliano Romeo. Ma soprattutto, le rimostranze più politicamente sostanziose erano arrivate, seppure in maniera cauta, da “pezzi da novanta” come i governatori Massimiliano Fedriga e Luca Zaia. Quest'ultimo, in particolare, aveva colto la palla al balzo di un'intervista concessa da Marina Berlusconi (nella quale la primogenita del Cavaliere ammoniva i partiti del centrodestra sul rischio di lasciare le battaglie sui diritti alla sinistra) per sottolineare quanto la Lega non debba appiattirsi su posizioni ultraconservatrici “alla Orban” sui temi bioetici e della tutela delle minoranze. In quell'occasione, era anche stata nuovamente evocata l'iniziativa del presidente del Veneto per l'approvazione di una legge sul fine vita, che però è stata affossata per il voto negativo anche di esponenti leghisti. E' lecito immaginare che Zaia, Fedriga e tutti gli altri volessero evitare imbarazzi come quello in corso a Strasburgo con Vanacci.