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Addio all’ordine un po’ noioso della Prima Repubblica, quando i partiti andavano a congresso a scadenze precise e si davano battaglia con mozioni scritte sulla carta. I partiti e i movimenti di oggi, invece, amano vivere pericolosamente: elezioni politiche nel 2018, staffetta di due governi con maggioranze opposte nel 2019, congressi uno dietro l’altro nel 2020, di tutti e tre i partiti di maggioranza.
Il primo ad annunciarlo è stato il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che ha annunciato un congresso straordinario dopo appena un anno al timone del Nazareno: sarà un «congresso fondativo», forse si cambierà il nome, di sicuro sarà «aperto a tutti progressisti». Incerto, ancora, se verrà messo in discussione anche il segretario.
Voci di palazzo lo danno dimissionario, convinto di non poter rappresentare il candidato leader di governo, tanto da aver fin qui scelto la prudenza del gioco di squadra, lasciando spazio a Dario Franceschini come frontman di governo. Prima, però, «vinciamo in Emilia Romagna», assicura l’ancora segretario. E vien da chiedersi, se vittoria non fosse ( Borgonzoni e l’uscente Stefano Bonaccini vengono ormai dati testa a testa), cosa mai diventerà questo congresso: forse l’ultimo da maggioranza di governo, forse il primo da anni con al centro un quesito chiaro di linea politica sull’alleanza strutturale con i 5 Stelle. Anche i 5 Stelle, squassati da terremoti interni e attraversati da correnti carsiche che minacciano di coagularsi al di fuori dei rigidi confini della piattaforma Rousseau, hanno annunciato i loro «stati generali» tra il 13 e il 15 marzo.
Chiamarlo congresso suona troppo burocratese della vecchia politica ( a cui ormai in molti li accusano di essere troppo vicini), ma il senso è lo stesso. E se nel Pd il dilemma è trovare un’anima nuova, tra i 5 Stelle l’allarme è la leadership. L’assedio del capo politico Luigi Di Maio è stato consumato e vinto, per le dimissioni manca solo il coraggio di renderle pubbliche, poi sarà l’Armageddon. Il Movimento ha dissipato in meno di due anni almeno 20 punti e ora rischia di finire annegato tra i flutti dell’irrilevanza politica. Così sarà in Calabria e in Emilia, ultimo pasticcio votato sulla piattaforma Rousseau, che certificherà ancora una volta che qualcosa è andato storto.
Nessuno sa cosa succederà, agli «stati generali». I sostenitori del Movimento sono pronti ad acclamare un nuovo leader, che magari riporti indietro le lancette alla purezza del passato e riscopra la lotta invece del governo. I parlamentari, invece, ormai avvezzi alle regole della politica, puntano ad arrivare armati a difendere i loro posti davanti al nuovo capo. E dal nome dipenderà anche l’accordo col Pd: i governi Conte 1 e 2 hanno dimostrato come anche l’anima più post- ideologica, alla fine, possa venir piegata a destra o a sinistra, a seconda del vento che soffia più forte.
Ad anticipare tutti, però, arriva il solito Pierino. L’Italia Viva di Matteo Renzi, che un’anima ancora non se l’è data se non quella un po’ cattiva della Leopolda post- scissione, ha scelto il primo fine settimana di febbraio per chiamare i ranghi a Roma. Si chiamerà “assemblea nazionale” e servirà a dare la forma e una direzione al movimento dell’ex leader dem, in crisi non tanto di notorietà ma nei sondaggi, che non lo collocano oltre i 4%. Una scure, con la nuova proposta di legge elettorale. La spina al governo l’ha attaccata lui e ora punta a governarne quanto più possibile la rotta, attestandosi contemporaneamente come l’unico leader oltre al premier Conte, che però ha ancora piedi d’argilla in Parlamento.
Gli unici che un’anima già ce l’hanno ( forse anche troppa) ma che faticano a incanalarla, sono le Sardine. Per loro più che per gli altri, parlare di congresso potrebbe essere fatale. La loro spinta nasce nelle piazze e si avvicina a quella del primo grillismo, ora vorrebbero fare il gran salto ma nemmeno loro sembrano sapere dove. Aspetteranno marzo per scoprirlo e per scegliere la forma che meglio contenga l’acqua nella quale nuotano, nella speranza che per allora il bacino non si sia svuotato. Come e forse più che per i partiti, infatti, la loro incognita rimane il voto emiliano. Bologna li ha cullati ma potrebbe anche soffocarli, se vincesse la Borgozoni confermando l’adagio delle “piazze piene, urne vuote”. Quattro congressi, una sola variabile che potrebbe fare da spartiacque, consegnando l’Emilia rossa a Matteo Salvini e la maggioranza alla crisi.