Che l’autonomia differenziata fosse una rogna Giorgia Meloni lo sapeva sin dall’inizio. Quella riforma non può piacere a Fi, che nel corso del tempo si è trasformata da partito del Nord produttivo a partito meridionale molto simile, dimensioni a parte, alla vecchia Dc del sSud. Scontenta anche la vecchia guardia di FdI, per motivi sia pragmatici che ideologici: prima di decollare il partito tricolore aveva le sue roccaforti nel centro- sud e in particolare nel Lazio, che è in realtà meridione ma anche sul piano dei valori una riforma che fa l’Italia a spezzatino risulta indigesta a un partito nazionalista come la FdI delle origini.

I mal di pancia interni alla maggioranza, però, sono ancora il meno. Il problema dell’autonomia differenziata è che scontenta, per usare un eufemismo, gli elettori di mezza Italia ed è molto meno facile addurre argomenti a sostegno di quanto non sia per la riforma a cui la premier tiene davvero, il premierato. La presidente si è rassegnata a vararla perché il patto con la Lega non poteva non essere onorato, tanto più che il Carroccio ha ingoiato in cambio una modifica costituzionale che non gradisce affatto come un premierato che non si limita all’elezione diretta ma rende il premier eletto padrone del governo e del Parlamento.

È probabile che Giorgia sperasse in una combattività ridotta se non di tutte le opposizioni almeno del Pd: l’Emilia rossa, in fondo, era stata tra le primissime a chiedere l’autonomia e la riforma di Calderoli non esisterebbe senza la riforma costituzionale del 2001 imposta a stretta maggioranza dal centrosinistra. In fondo si tratta dell’applicazione, più volte rinviata, di quella sciagurata riforma della Carta, Per un po’ è sembrato che le cose andassero davvero per quel verso. In prima battuta il Pd è stato timido, essendo consapevole delle proprie responsabilità in materia. Ma le cose sono cambiate radicalmente quando la segretaria si è resa conto di dover cavalcare quella campagna a ogni costo e quando l’allora presidente dell’Emilia nonché del partito Bonaccini, ha scelto una vigorosa e un po’ sfrontata inversione di marcia. La premier puntava a disinnescare la bomba con il rinvio di anni dell’entrata in vigore dell’autonomia sulle materie per le quali devono essere definiti, e soprattutto finanziati, i Livelli essenziali di prestazione, i Lep, ma anche quella carta è andata a vuoto.

Il risultato che lo scontro frontale e decisivo tra maggioranza e opposizione, previsto nel referendum sul premierato, rischia di essere anticipato alla primavera prossima e di giocarsi sul terreno per la premier più sfavorevole, dal punto di vista politico e propagandistico, quello del referendum sull’autonomia. Certo, dal punto di vista

tecnico in quella prova la premier e il suo governo giocano quasi sul sicuro. Nel referendum confermativo della riforma costituzionale non si esige quorum, in quello sull’autonomia sì e si sa quanto proibitivo sia quel traguardo del 50% degli aventi diritto. Ma il caso del referendum sull’acqua, l’unico ad aver tagliato quel traguardo in tempi recenti, dimostra che quando gli elettori si sentono direttamente e personalmente coinvolti il quorum si può raggiungere ed è probabile che in almeno mezza Italia il corpo elettorale pensi che stavolta il quesito tocca direttamente i suoi interessi.

La 500mila firme per il referendum raccolte in 10 giorni sono pertanto per il governo una pessima notizia. È vero che il numero di forme necessario è stato raggiunto in tempi record grazie alla possibilità di firmare online e questo crea diversi problemi di varia natura. Il numero di firme invalidato sarà certamente ben più alto del solito. La differenza tra la scelta di muoversi per apporre la firma e l’automatismo del click, come ammettono anche nella Cgil, è che nel primo caso chi firma si trasforma anche in un attivista, convince altri a firmare e soprattutto a votare, nel secondo si tratterà probabilmente di adesioni più pigre. In termini generali, infine, la facilità della firma dalla scrivania di casa rischia di provocare un’inflazione di quesiti tutti sostenuti da quel mezzo milione di firme necessarie per celebrare il referendum. Ma sono considerazioni decisamente meno pesanti della possibilità, anzi della quasi certezza, di portare in Cassazione un milione e passa di firme.

Un’adesione così oceanica implica due effetti probabili. La Cassazione deve decidere sull’ammissibilità del quesito ed è una scelta, questo caso, che si baserà su sfumature. Il condizionamento di una richiesta molto al di sopra del quorum rende decisamente più facile l’approvazione del quesito. Amplifica inoltre l’importanza e il richiamo mediatico della prova, spingendo così gli elettori a votare e moltiplicando la possibilità di raggiungere il quorum. Una sconfitta sarebbe disastrosa per la premier. Non sarebbe affatto tenuta a dimettersi ma il suo governo diventerebbe nel giro di 24 ore la classica “anatra zoppa”: agonizzante. La coesione della maggioranza ne uscirebbe a brandelli, perché la Lega sospetterebbe gli alleati di tradimento nelle urne e quasi certamente una parte di Fi, con il governatore della Calabria e vicesegretario Occhiuto in testa, gliene darà motivo anche pubblicamente schierandosi apertamente contro l’autonomia. Insomma, Giorgia rischia di giocarsi tutto nella sfida sull’autonomia e c’è senza dubbio una certa ironia nel dover rischiare tanto per una riforma che le piace tanto poco.