Minimizzare il significato delle parole pronunciate da Giorgia Meloni sarebbe assurdo. Hanno di fatto lo stesso valore che ebbero quelle pronunciate da Gianfranco Fini nel 2003, quando definì il fascismo "male assoluto". Completano un percorso che la premier ha seguito procedendo per tappe, ogni volta avvicinandosi di più a una denuncia esplicita del fascismo mai davvero raggiunta. Sino a ora. 

L'accusa che le è stata più volte rivolta in questi anni è stata quella di essere non fascista, questo nessuno lo ha mai detto, ma neppure antifascista, "afascista" secondo il neologismo coniato proprio per il suo caso. Ieri Meloni ha reso quell'accusa non più giustificata né giustificabile: «In questa giornata la Nazione onora la sua ritrovata libertà e riafferma la centralità di quei valori democratici che il regime fascista aveva negato e che da settantasette anni sono incisi nella Costituzione repubblicana». E' una professione di antifascismo indiscutibile anche se non colorata con le tinte forti che aveva usato Fini.

Del resto, Meloni approfondisce e rende irreversibile la rottura col passato nella seconda parte del comunicato: "La democrazia trova forza e vigore se si fonda sul rispetto dell'altro, sul confronto e sulla libertà e non sulla sopraffazione, l'odio e la delegittimazione dell'avversario politico". E' ovvio che c'è nella formula scelta dalla leader della destra italiana anche un intento polemico rivolto a chi, in nome dell'antifascismo ostacola, a suo parere, la "concordia nazionale" ma questo è nell'ordine del gioco politico e del suo addentellato propagandistico.

La dichiarazione di oggi, tanto più se sommata con quel che la premier aveva già detto in passato, segna una cesura netta. Non con il regime di Benito Mussolini: quel legame per lei non c'è mai stato. Le sue radici non affondano nell'esperienza del Pnf ma in quella del Msi e in particolare del Msi di Giorgio Almirante. Dunque nella parabola di un partito che era già diventato democratrico, sia pur nella declinazione di una democrazia fortemente autoritaria, ma che rifiutava la rottura, la denuncia e la contrapposizione valoriale con il fascismo. Quel da cui Meloni ha preso le distanze con un ultimo ma necessario passo è l'eredità del Msi e la sua costitutiva non-discontinuità rispetto al fascismo.

Difficile dire quanto ci sia calcolato nella tempistica scelta dalla premier. Di certo ha sempre avuto ben presente l'esperienza di Fini, la cui sterzata non fu in realtà accettata dalla sua stessa base proprio perché, nonostante fossero passati otto anni dalla svolta di Fiuggi e dalla nascita di An il leader dell'ex Msi non aveva saputo prepararla adeguatamente. Giorgia ha scelto un metodo diverso, avvicinandosi per gradi alla denuncia aperta del fascismo proprio per abituare la sua gente e ridurre così al minimo l'effetto lacerante dello strappo.

Ma devono aver pesato anche altri fattori e in particolare il peso crescente che ha assunto nella sua visione, nella sua strategia e anche nelle sue ambizioni il palcoscenico europeo. In Italia, dopo decenni di berlusconismo, il peso della pregiudiziale antifascista è molto ridotto anche se non del tutto svanito, nonostante le apparenze. Ma in Europa, e a maggior ragione in un'Europa preoccupatissima per l'avanzata delle forze di estrema destra, quella pregiudiziale ha ancora un peso notevole. Piombo nelle ali di chi, come Giorgia Meloni, aspira ormai apertamente a imporsi come leader di prima garndezza e assoluta centralità non più solo in Italia ma in Europa.

Meloni non è arrivata a palazzo Chigi con questo obiettivo già in mente. Solo arrivata al governo si è resa conto di quanto determinante sia il contesto internazionale e la postazione nella Ue. E solo nella pratica si è resa conto, come era già capitato a Silvio Berlusconi, anche di quanto le piacesse quell'aspetto sino al 2022 ben poco praticato della politica, il suo versante internazionale.

A Giorgia Meloni il coro che la martella da quando governa accusandola di post-fascismo o afascismo e rinfacciandole il mancato antifascismo può rimproverare dopo il discorso di ieri una cosa sola: la permanenza del simbolo del Msi nel logo del suo partito, FdI. Lo faranno probabilmente in molti e la stessa Giorgia, che conosce e pratica da un pezzo le regole della propaganda politica, sarà l'ultima a stupirsene. Ma c'è da scommettere che prima o poi, al momento giusto, anche quella fiamma tricolore finirà per essere cancellata.