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Qualcuno li chiama già «sindaci ribelli», fasce tricolori che si oppongono allo Stato anziché alla ‘ ndrangheta. E ad uno sguardo superficiale, forse, potrebbe apparire così. Ma i 51 sindaci calabresi che hanno scritto al ministro dell’Interno Marco Minniti, chiedendo un incontro per discutere degli scioglimenti delle amministrazioni per infiltrazioni mafiose, puntano solo a ricreare «un clima di serenità e fiducia», per non smettere di credere nella democrazia e nella funzione dello Stato.
Uno Stato che ormai sempre più frequentemente, di fronte al sospetto della contaminazione mafiosa, decide di radere al suolo le amministrazioni anziché aiutarle. La lettera parte dal Comune di Roghudi, in provincia di Reggio Calabria, dalla mail del sindaco Pierpaolo Zavettieri. È lui a spiegare, al termine di un incontro con il prefetto di Reggio Calabria, Michele Di Bari, lo scopo suo e dei colleghi: un incontro «politico» con Minniti per poter rivedere quelle norme «che in qualche modo occludono ogni spazio democratico», ha dichiarato in un’intervista a Newz. it. La legge, ha sottolineato, s’inceppa quando consente agli organi di prefettura di intervenire senza nessuna forma di contraddittorio, «senza nessuna possibilità che vengano comprovati gli elementi posti a carico degli amministratori e attraverso i quali vengono poi applicati gli scioglimenti per i consigli comunali, così come le interdittive alle imprese».
La richiesta non è quella di abrogare la norma, anzi, precisa Zavettieri, «chiediamo che avvengano sempre questi processi a favore della legalità», ma che gli stessi consentano ad amministratori e imprenditori colpiti da interdittiva «di dimostrare», l’eventuale insussistenza degli indizi posti alla base dello scioglimento.
Assieme a ciò, i sindaci chiedono anche eventuali interventi sul sistema burocratico: non allo scopo di scaricare le responsabilità politiche, aggiunge Zavettieri, ma per affiancare i funzionari, azione «che non penalizzerebbe la democrazia».
Gli organi politici sono infatti espressione del popolo, al contrario degli uffici, che hanno tempi di rinnovamento molto più lenti. Un intervento, dunque, non altererebbe i principi democratici, «cosa che avviene se si rimuove l’amministrazione comunale e si insedia una commissione». Un principio che qualche giorno fa anche il nuovo procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, ha in qualche modo condiviso, spiegando la necessità di pensare «a percorsi che accompagnino gli organi elettivi con un sostegno statale». Nella lettera i sindaci evidenziano le «condizioni ed i contesti» in cui si trovano ad operare le amministrazioni locali, «un pezzo di Stato, sia pure periferico che non sempre si sente tale anche perché misconosciuto dagli altri organi dello Stato presenti sul territorio».
E alla collaborazione, negli ultimi anni - basti pensare che dal 2012 ben 43 amministrazioni sciolte su 81 si trovano in Calabria - si è sostituita «la cultura del sospetto» e lo Stato, anziché stare a fianco dei Comuni, è diventato «ostile». E in questo clima, aggiungono, «nessun obiettivo di crescita sociale e civile e nessuna azione efficace di contrasto alla criminalità organizzata può avere successo». Lo scioglimento è passato da strumento eccezionale a strumento ordinario, spingendo sempre più gli amministratori a cedere alla tentazione di mollare l’impegno pubblico.