Non si può dire che con le banche il governo abbia mostrato il coraggio leonino a cui aveva alluso in aula Giorgia Meloni rivolta al Pd: «Aspettate la manovra e potreste scoprire che abbiamo il coraggio che voi non avevate». Non si può nemmeno dire che di coraggio il suo governo non ne abbia avuto affatto e si limiti a truccare la carte, come ripete buona parte dell’opposizione.

L’intervento sulle banche e sulle assicurazioni c’è e ai diretti interessati non fa certo piacere. Però è quasi precisamente quello che si era detto disposto a concedere sin dall’inizio il presidente dell’Abi Patuelli: un anticipo di due anni delle imposte differite. Patuelli aveva proposto un anno di anticipo. Il governo ha raddoppiato e in una trattativa difficile come quella con i potenti istituti di credito e le assicurazioni, difesi a spada tratta da uno dei partiti della maggioranza, Fi, non si può dire che sia un nulla di fatto. La piena soddisfazione del partito azzurro, che canta vittoria e brinda pubblicamente, rivela però che Meloni e Giorgetti non hanno osato oltrepassare il livello di guardia entrando in conflitto con un potere come quello di banche e assicurazioni.

Quanto alla destinazione della manovra, lievitata all’ultimo momento da 25 a 30 mld, la bussola è stata certamente politica ma non si può dire che sia stata pensata per avvantaggiare i più ricchi. La conferma del taglio del cuneo fiscale avvantaggia le fasce medio basse, anche se per i redditi da 20mila al tetto di 30mila euro, il vantaggio si declina in termini di detrazioni fiscali e non di minori contributi. In un modo o nell’altro dovrebbe esserci un ricavo di circa 100 euro. L’intervento sulla sanità è certamente insufficiente: secondo l’opposizione che punta l’indice accusatorio intorno ai 900 mln, oltre due mld stando ai conti del ministero.

La barra politica è rappresentata dagli interventi a favore delle famiglie purché abbiano figli e possibilmente parecchi. Fa un po’, anzi un po’ troppo, campagna mussoliniana per la natalità, ma questa è l’impostazione della maggioranza, particolarmente cara alla premier, e in ogni caso nessuno avanza dubbi sulla gravità della crisi demografica e di conseguenza di qualsiasi intervento volto a contrastarla. Nel complesso e tenuto conto della situazione austera, la legge di bilancio, per come si profila al momento, non è eccezionale né particolarmente audace ma neppure da crocefissione. Sempre che davvero i tagli riguardino solo le spese dei ministeri, come assicura il governo, e non è affatto certo. Per capirlo bisognerà però aspettare la presentazione della vera e propria legge di bilancio, lunedì prossimo.

Il limite principale va comunque ricercato altrove. A conti fatti il governo si è mosso come tutti i governi precedenti quando suonava la campana delle finanziarie: arrabbattandosi per rintracciare fondi con manovre una tantum. Può farlo. Il nuovo Patto di stabilità lo consente finché si tratta di interventi sulla riduzione del deficit. Il governo è certo che Bruxelles darà semaforo verde alla legge e probabilmente ha ragione. In prospettiva, già a partire dai prossimi anni, l’orizzonte è però molto meno roseo.

Prima di tutto le misure una tantum sono ammesse per la riduzione del deficit ma non per la copertura delle spese eccedenti. In secondo luogo la richiesta di usufruire di 7 e non di soli 4 anni per completare il risanamento implicherà la richiesta di riforme strutturali che, per essere tali, dovranno per forza mordere e dunque scontentare qualcuno. Infine anche la disponibilità di misure una tantum non è infinita.

Il gioco di prestigio realizzato con successo quest’anno, cioè far quadrare i conti scontentando sì qualcuno però non troppo e anzi il minimo indispensabile, diventerà sempre più difficile. Anche se non soprattutto perché il quadro generale, con le guerre che non accennano a finire e l’impatto di quella ucraina sull’economia tedesca è già molto pesante, non permette grande ottimismo su elementi chiave come la crescita del Pil, per non parlare della produzione industriale in piena flessione.

Prima o poi, dunque, la premier dovrà decidersi a fare quel che non ha fatto stavolta e che in tutta evidenza avrebbe voluto invece fare subito il ministro Giorgetti: mettere i suoi alleati con le spalle al muro per definire una linea strategica di politica economica per i prossimi e tutt’altro che facili anni.