PHOTO
La maratona dura quasi tre ore e bisogna riconoscere alla premier il merito di aver tenuto botta senza peraltro sbottonarsi quasi su nulla. A conti fatti, su 45 domande circa, una sola ottiene risposta precisa e definitiva, quel che si definisce “una notizia”. Il governo italiano è pronto a sostenere una candidatura alla presidenza della commissione europea pur se appoggiata dal Pd in cambio del semaforo verde al commissario italiano che sceglierà Roma.
Nessun accordo con la sinistra, sia chiaro. Meloni esclude la possibilità di entrare a far parte dell’attuale maggioranza Ursula allargata ai conservatori. Sta «lavorando a un’altra maggioranza» ma se non sarà possibile in base all’esito delle elezioni«non entrerò in una maggioranza con la sinistra». Il problema, come la stessa premier chiarisce, è che le dinamiche del Parlamento europeo sono ben diverse da quelle dei Parlamenti nazionali: parlare di maggioranze stabili significa tirare le cose per i capelli sino a strapparli Di fatto “la maggioranza” si esprime come tale praticamente solo nel voto per la presidenza della Commissione e lì la premier italiana non ha alcuna intenzione di farsi tagliare fuori dai giochi. È pronta ad appoggiare la nuova presidenza, che probabilmente sarà la stessa von der Leyen, con chiunque. La posta in gioco, un commissario di assoluto gradimento per Chigi, è troppo alta per essere schizzinosi. Se poi il candidato dovesse essere Mario Draghi, di problemi continuerebbero a non essercene affatto, ma per vagliare ipotesi del genere è decisamente «troppo presto».
Sull’altro gruppo di destra all’Europarlamento, quello di Salvini, Identità e Democrazia, la presidente conservatrice è abbastanza netta: «Con AfD e con il Rassemblement di Marine Le Pen ci sono differenze insormontabili». È quello che a Bruxelles, Berlino e Parigi volevano sentir dire per accogliere definitivamente la premier italiana nel salotto buono riservato ai leader affidabili. Anche se poi qualche spiraglio l’italiana lo apre. Perché quando una formazione prende il 20-25% non si può far finta che non esista, perché figurarsi se proprio lei, che viene dal ghetto degli underdog, può volerci chiudere qualcun altro, fossero pure i neonazi tedeschi e soprattutto perché la istanza “insormontabile” è rappresentata soprattutto dalla vicinanza alla Russia di Putin e lì, almeno nel Rassemblement , è in corso una riflessione interessante.
Per il resto la premier è riuscita ad apparire convincente esponendosi pochissimo e senza prendere impegni di sorta. Un esempio per tutti, quello più attuale: il monito del capo dello Stato su ambulanti, concorrenza e adeguamento alla Bolkenstein. «La lettera non resterà inascoltata», promette la presidente ma cosa singifichi nel concreto evita di dirlo. Allo stesso modo, sui balneari e sulla procedura dì’infrazione incombente, garantisce solo che la settimana prossima il governo sarà impegnato per evitare la procedura e allo stesso tempo «dare certezze agli operatori». Oppure l’eventualità, in realtà l’assoluta probabilità, di una manovra correttiva in primavera: «È presto per parlarne». La carta sulla quale punta l’Italia per tirarsi fuori da una situazione già difficile ma peggiorata molto dal nuovo patto di stabilità (che però «partirà nel 2025», tiene a specificare la premier) è l’abbassamento dei tassi di interesse da parte della Bce e anche sul fronte della manovra correttiva l’eventuale allentamento della stretta sarebbe la classica mano santa.
Anche senza concedere nulla di nuovo, però, qualcosa, tra le righe, ieri la premier ha detto. In particolare su due fronti: le continue gaffes del suo partito e la prova del referendum. La decisione di sospendere Pozzolo era nota sin dalla vigilia, ma Meloni adopera il caso anche per lanciare un minaccioso monito a tutto campo: «Non posso essere responsabile solo io. Devono esserlo tutti e in caso contrario sarò rigida». Anche se la leader di FdI elogia a più riprese il gruppo dirigente del suo partito, l’avvertimento non poteva essere più chiaro e più esplicito.
Sul referendum le preoccupazioni della premier sono di diversa natura. Primo, negare che si sottragga potere al capo dello Stato: «Abbiamo fatto proprio la scelta di non toccare i poteri del presidente perché con un premier eletto c’è tanto più bisogno di un garante». Secondo, chiarire che il voto non sarà su di lei, decisa a restare comunque al proprio posto: «Io, con tutti gli scongiuri, sono in situazione migliore quanto a stabilità, dei miei predecessori. Ma questo è il presente e si voterà non sul presente ma sul futuro». Terzo, stornare il rischio di un referendum non sul premierato ma sulla scelta tra democrazia e autoritarismo.
È il solo caso nel quale Meloni, parlando delle critiche mosse da Giuliano Amato, fatica a nascondere l’ira: «Dice che il governo è contro la Corte Costituzionale? Chiariamo, il Parlamento elegge 5 membri della Corte su 15 e 4 saranno eletti quest’anno. Ma non è che quando la sinistra ha la maggioranza elegge chi vuole e la destra no. Altrimenti tanto varrebbe varare una riforma per cui le nomine le fa il Pd, sentiti gli intellettuali di riferimento e Giuliano Amato. L’epoca della differenza tra sinistra e destra è finita, fi-ni-ta».
Sarà anche per questo, per finirla con la sinistra, che la premier quasi lancia una sfida a Elly Schlein. La decisione sul candidarsi o meno alle europee non la ha ancora presa e i tre leader della destra decideranno insieme se candidarsi tutti. Ma quanto la presidente sia tentata è palese: «Sarebbe una bella prova di democrazia verificare così il consenso e magari qualcuno anche nell’opposizione potrebbe fare la stessa cosa». Qualcuna, per la precisione, Elly Schlein, che Giorgia Meloni è convinta di mandare al tappeto in largo anticipo sulle elezioni politiche se entrambe saranno in lista il 9 giugno.