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IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GIORGIA MELONI
Giovedì prossimo, 17 aprile, Giorgia Meloni sarà a Washington, salvo possibili slittamenti nel calendario in veste più di rappresentante dell’Europa che di capo del governo italiano. Il ruolo diplomatico non sarà formalizzato né potrebbe esserlo, dal momento che la gestione della trattativa spetta alla Commissione europea e in particolare al commissario al Commercio Sefcovic. Ma la sostanza è questa e lo stesso Sefcovic ha fatto capire di non essere affatto contrario a iniziative tese ad agevolare il compito della Commissione, fermo restando che titolare della trattativa resterà lui, come peraltro il governo italiano ha confermato innumerevoli volte in pochi giorni.
Meloni arriverà due giorni dopo il varo dei primi dazi su prodotti americani. Tajani ha provato inutilmente a posticipare quella data ma la Commissione ha scelto una mediazione tra falchi, soprattutto Francia e Germania, e colombe, con in primissima fila l’Italia. Darà tempo a un’eventuale negoziazione ma mostrando subito i muscoli con una prima e ancora limitata tranche di dazi, in risposta a quelli americani su acciaio e alluminio, a partire dal 15 aprile. La seconda tranche è fissata per il 15 maggio ma la decisione più difficile, come rispondere all’ondata di dazi annunciata da Trump il 2 aprile non ha ancora una data. Dipenderà dall’esito della trattativa, dunque, almeno in parte significativa, dall’esito della missione di Giorgia.
L’obiettivo, illustrato neppure troppo fra le righe sia dalla presidente von der Leyen che da Sefcovic è arrivare, o almeno iniziare ad avvicinarsi, a quello che la stessa Meloni ha battezzato «zero a zero»: in concreto nessun dazio né dall’una né dall'altra parte. Incontrando gli imprenditori a Palazzo Chigi, Meloni ha confermato tale intento: «La sfida da esplorare», ha detto, «è la formula "zero per zero". In questo mi pare che ci sia da parte della presidente della Commissione e da parte del Commissario al Commercio che sta trattando una disponibilità. È questo», ha aggiunto la premier, «il negoziato che deve vederci tutti impegnati e a tutti i livelli, che vede impegnati noi e che impegna me che sarò a Washington il prossimo 17 aprile e ovviamente intendo affrontare anche questa questione con il presidente degli Stati Uniti».
Nessuno sa se il presidente americano mostrerà qualche segno di interesse e nessuno si illude che, nel caso, la trattativa si limiterebbe a questo. Sul piatto della bilancia, sempre che sia interessato a negoziare, Trump metterà di sicuro massicci acquisti di export americano da parte dei Paesi europei. Armi naturalmente: dalla Farnesina riconoscono che le armi dall’America andrebbero comprate comunque perché sono le migliori ma l’Unione ha stabilito che il grosso del riarmo deve fondarsi sullo slogan «compra europeo», dunque la strada non sarebbe del tutto in discesa. In salita ripida è invece la seconda condizione che la Casa Bianca potrebbe porre: l’acquisto di gas liquido americano.
All’Italia e in generale al grosso dei Paesi europei non conviene affatto. Non è detto che la trattativa parta. In compenso è detto che, se partirà, non sarà facile. In quel viaggio la premier italiana si giocherà moltissimo. Se tornerà a mani del tutto vuoto perderà moltissime posizioni in Europa e il peso contrattuale dell’Italia nelle scelte che dividono l’Europa diminuirebbe vertiginosamente. In concreto, di fronte a un fallimento della trattativa Francia e Germania insisterebbero per passare a una controffensiva da guerra totale e l’Italia avrebbe molti meno argomenti da contrapporre ai duri. Allo stesso tempo, naturalmente, un successo anche parziale, l’avvio di un possibile disgelo, la incoronerebbe come figura centrale nella politica europea.
La sfida è rischiosa ma la premier non poteva che accettarla. Le critiche durissime con cui l’opposizione bersaglia il suo comportamento nella crisi dei dazi sono nell’ordine delle cose: a parti rovesciate Meloni non si muoverebbe diversamente. Ciò non toglie che quelle critiche siano in buona misura gratuite o almeno ingenerose. A Meloni vengono addebitate essenzialmente tre cose: una è il «non essersi fatta trovare pronta» di fronte a una tempesta prevedibile, un’altra è la tendenza dichiarata a minimizzare, l’ultima e più grave il non schierarsi risolutamente con l’Europa contro il bieco Trump.
In realtà nessuno «si è fatto trovare pronto» perché se tutti si aspettavano l’attacco nessuno lo immaginava così duro, rapido e incarognito. Ma anche se la portata dell’offensiva fosse stata prevista al millimetro nessuno sarebbe stato davvero pronto perché la situazione sarebbe stata comunque, come effettivamente è, troppo confusa ed esposta a evoluzione diverse per approntare in anticipo una reazione. Sul piano degli eventuali e probabilmente necessari ristori, il governo avrebbe dovuto comunque muoversi su un terreno scivoloso e accidentato. Deve cioè sgusciare tra le maglie del patto di stabilità e della procedura d’infrazione che ha colpito l’Italia stando anche ben attento a non sfidare il divieto degli aiuti di Stato alle industrie fissato dalle norme europee.
A essere «pronta», cioè rapida nell’allentare le maglie di quel Patto avrebbe dovuto essere casomai la Ue ma si sa che questo sarebbe chiedere troppo. Anche la «minimizzazione» come capo d’accusa ha poco fondamento. Forse la premier esagera quando sostiene che il panico fa più danno dei dazi ma certo ne fa parecchio. L’ultimo addebito non è privo di fondamento, Meloni si tiene davvero in equilibrio tra le due sponde dell’oceano. Però è proprio grazie a questa postazione che può sperare di farcela mercoledì prossimo. Se ci riuscirà quella posizione “di ponte” sarà esaltata da tutti. In caso contrario sarà una pietra al collo.