Invece di correre dietro alle ombre evocate con toni sibillini dalla premier e interrogarsi inutilmente su chi siano “i ricattatori” di fronte ai quali promette di non piegarsi, conviene concentrarsi su quel che la premier ha detto esplicitamente, forse anche con chiarezza maggiore di quanto intendesse fare. Nella conferenza stampa di due giorni fa, in diverse occasioni, la presidente ha illustrato la sua visione della democrazia, quella che fa da sfondo alla riforma costituzionale sulla quale entro il 2025 gli italiani saranno chiamati a votare. Lo ha fatto quando ha esaltato la possibilità di sfruttare l’occasione offerta dalle elezioni europee per chiedere agli elettori un pronunciamento non sulla sua visione dell’Europa ma sul suo primo anno e mezzo di governo. Democrazia, ha detto quasi apertamente, è verificare spesso il consenso degli elettori e se a questo fine bisogna mettere in campo candidature che tutti sanno essere finte, perché nessun leader opterà mai per il Parlamento europeo, poco male.

L’importante è che gli elettori possano dire periodicamente se apprezzano non un partito, una linea politica, un governo ma la persona che quel partito e quel governo guida. È difficile rintracciare una visione altrettanto sintetica e allo stesso tempo nitida di una democrazia “plebiscitaria” che porta a compimento la distruzione dei corpi intermedi, cioè della colonna vertebrale della democrazia, già di per sé in fase molto avanzata.

Altrettanto rilevante è la foga con cui Meloni ha negato che la riforma riduca i poteri del Capo dello Stato tacendo invece sull’istituzione che, molto più del Colle, sarà ridotta a ruolo ancillare e quasi superfluo dalla riforma, il Parlamento. È vero che Meloni si è avvalsa del silenzio dei cronisti, tutti concentrati sul ruolo del Quirinale e disinteressati a quello del Parlamento, ma è anche vero che in tutta evidenza lo Stato meloniano prevede un’istituzione fortissima, palazzo Chigi, un garante, il Presidente, un contrappeso locale, le autonomie forti e qui si ferma. Per le Camere non c’è spazio né parte in commedia.

Anche il passaggio sulle tv è stato eloquente. La premier lamenta il fatto che nella fase del governo Draghi il suo partito, unico all’opposizione, fosse anche l’unico non rappresentato nel cda Rai. Ha ragione, sia chiaro, ma è anche vero che in quel momento FdI rappresentava il 4% dell’elettorato mentre oggi le opposizioni sono almeno mezzo Paese. La premier, insomma, sfrutta la sgrammaticatura anche grave di quella fase per giustificare una visione in cui “chi vince piglia tutto” e non è stata certo innocente quella specifica sulla presenza di Amato nella commissione algoritmi non decisa da lei. Un modo quasi chiaro per spingere il dottor sottile verso la porta d'uscita, che ha poi effettivamente imboccato ieri.

In questa cornice è del tutto conseguente che la premier sfidi la leader dell’opposizione a misurare il consenso direttamente nelle urne. La prova ci sarà. Elly aveva già deciso di candidarsi. Meloni non vede l'ora, anche se deve prima aver ragione delle resistenze di Salvini che non ha molta voglia di misurare in uno scontro diretto i rapporti di forza nella maggioranza. Però l’uscita ufficiale in conferenza stampa, quella specie di guanto di sfida, modifica sensibilmente i termini del confronto. Non è più implicito ma dichiarato, con tanto di richiesta agli elettori si esprimersi sull’una o sull’altra: un’ordalia che con l'Europa non ha più nulla a che vedere. Il modello di democrazia plebiscitaria prevede infatti il confronto diretto tra due persone, tra due leader invece che tra due coalizioni.

È probabile che la sfida di Meloni sia stata calcolata con maggiore freddezza di quanto è sembrato. Anticipare, come in una prova generale, quello che secondo lei dovrebbe essere il prossimo scontro elettorale per il governo del Paese sarà senz’altro utile al fine di abituare gli italiani agli usi e ai costumi della democrazia plebiscitaria, condizionandone così, per quanto possibile, la scelta quando si arriverà al referendum.