La manovra cambierà. Forse. «Non è chiusa» avrebbe garantito Tajani ai suoi che scalpitano scontenti. Fi, per la verità, non è uscita malissimo dalla partita della manovra ma solo in termini di riduzione del danno, non di avanzamento. Meglio di Salvini, che letteralmente non ha visto palla e infatti anche lui, pur se su posizioni opposte a quelle del ministro degli Esteri in materia di banche, si augura un ritocco. Ma quando?

Certo non nei prossimi e pochissimi giorni di qui alla presentazione del testo della manovra i cui contenuti sono però già stati anticipati tutti nel dettaglio. Non ci sarebbe comunque tempo, dal momento che il testo deve essere pronto per domani e con la premier in Libano, orgogliosa di essere il primo capo di governo a presentarsi in zona di guerra dall’inizio delle ostilità sul terreno, non ce ne sarebbe modo. Ma anche senza la missione libanese di mezzo la presentazione di Giorgetti e del viceministro Leo è stata troppo dettagliata per rimetterci seriamente mano senza restituire un quadro di confusione e divisione a cui nella maggioranza tiene. Qualche dettaglio potrà essere modificato ma nulla di più. Ipotetiche modifiche potranno esserci solo in aula, con gli emendamenti, e soprattutto a questo alludeva in effetti Tajani con la sua sibillina battuta sulla legge di bilancio ancora in fieri.

L’ipotesi di una manovra sul punto di essere riveduta e corretta a spron battuta si era diffusa dopo l’improvviso e imprevisto vertice notturno a Bruxelles al bar dell’Hotel Amigo, presenti i tre capipartito e Raffaele Fitto. Che l’incontro non fosse solo conviviale è chiaro ma sul tavolino dell’Amigo non c’era tanto la manovra quanto la candidatura a rischio del commissario europeo e vicepresidente vicario Fitto. Il rischio è reale. I socialisti muoiono dalla voglia di silurare l’esponente di FdI e una parte dei Liberali di Renew pure. Non perché abbiano nulla contro di lui ma per dare una mazzata al principale governo della destra in Europa.

L’audizione del 12 novembre, al termine della quale si voterà il gradimento per Fitto, come per tutti i commissari, non sarà una formalità. Socialisti e Liberali hanno bisogno di un appiglio per bocciare il commissario indicato dall’Italia: cercheranno di farlo incespicare in particolare sul tasso di europeismo reale di questo governo. La manovra tentata dalla premier nella discussione in Parlamento dei giorni scorsi per costringere il Pd a farsi garante dell’italiano nell’eurogruppo Socialisti e Democratici è fallita. Elly non ha detto né sì né no. È sgusciata e in ogni caso non ha preso l’impegno a cui mirava Giorgia. Se anche il Pd, per non passare da anti-italiano, voterà a favore di Fitto, la segretaria non pare avere alcuna intenzione di spendersi per convincere le delegazioni socialiste di altri Paesi a fare altrettanto.

Da un lato, dunque, bisogna preparare l’audizione di Fitto con cura, per evitare trappole, ma dall’altro sarebbe prezioso un aiutino nel segreto dell’urna dei cugini più radicali, i Patrioti di Orbàn, Le Pen e dello stesso Salvini. In questo caso a darsi da fare dovrebbe essere lui, nel suo eurogruppo. Il problema è che per convincere i sovranisti di Orbàn a votarlo Fitto deve assumere proprio quelle posizioni che fornirebbero ai Socialisti la scusa per non votarlo e viceversa. Il rebus, di qui al 12 novembre, è questo.

Ma la centralità del caso Fitto, inevitabile dato che una sua bocciatura equivarrebbe alla débâcle del governo, non significa che sulla manovra non ci siano problemi e che gli alleati non sperino davvero di correggere qualcosa di significativo con gli emendamenti. Fi ha sostanzialmente vinto sulle banche: non c'è nessun contributo, nessuna tassa camuffata dietro altra dicitura. Solo un rinvio dei crediti di imposta di due anni: un prestito. Non è precisamente quello a cui mirava il residente dell’Abi Patuelli che sperava in un rinvio di un solo anno ma certo ci si avvicina molto. I cavalli di battaglia azzurri però sono rimasti al palo: nessun aumento neppure simbolico delle pensioni minime, nessun abbassamento della seconda aliquota irpef, che Fi voleva portare dal 35 al 33%. Soprattutto sulle pensioni minime, la loro bandiera sin dai giorni dell’ultimo Berlusconi, i forzisti pensavano di ottenere qualcosina in più e ci riproveranno.

Salvini, però, sta messo peggio. Non ha ottenuto niente neanche lui: non quota 41 sui pensionamenti, neppure l’innalzamento del tetto della Flat Tax da 85 a 100mila euro. A differenza del collega vicepremier azzurro, però, il leghista non può neppure consolarsi con il capitolo banche. A decidere anche sugli emendamenti, comunque, saranno loro, Meloni e Giorgetti: non hanno alcuna intenzione di far passare emendamenti tanto significativi da incidere davvero sulla “loro” manovra.