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L’elezione di Ignazio La Russa alla presidenza del Senato ha mostrato in un sol colpo tutti gli ingredienti dell’impasto che compone la vita politica: lo stile, il tono istituzionale, la spregiudicatezza della lotta. Per lo stile un omaggio va reso a Roberto Calderoli, cui universalmente e unanimemente viene riconosciuta una straordinaria competenza ed esperienza nel governo delle assemblee. Ha accettato, con stile, appunto, le logiche di un puzzle complicatissimo nei rapporti interni alla maggioranza vincitrice delle elezioni.Per il tono istituzionale, invece, il discorso del neopresidente è stato sicuramente franco e coraggioso, al di là delle diverse opinioni. Nulla di retorico. Giornalisticamente, si potrebbe dire, c’ha messo la faccia, senza eludere le questioni, sulle quali era atteso, con stratagemmi retorici o ambigue allusioni. Si è assunto una responsabilità, collegandosi idealmente (ed esplicitamente) a quella che si era assunto Luciano Violante ventisette anni fa: un ex comunista allora, un ex missino oggi. Sarà abbastanza per chiudere la lunghissima transizione storico-politica? Per quella pacificazione che apra la strada a una competizione sana, da democrazia adulta? Per restare nei simboli, di cui il tono istituzionale necessariamente si nutre in ogni parte del mondo e in ogni tempo, la proposta di fare del 17 marzo una festa nazionale che abbia pari dignità del 25 aprile e del 2 giugno diventa metaforicamente l’emblema dello scarto da colmare per completare il processo di formazione nazionale che, dai tempi di D’Azeglio, fa dell’Italia una comunità politica ancora incompiuta, parafrasando Moro. Festeggiare, con la stessa dignità delle altre, la ricorrenza dell’Unità d’Italia, proseguendo sulle orme già tracciate da Ciampi, è una sfida che evoca nodi assi più grandi del fatto in sé. È una celebrazione del futuro possibile e ancora non raggiunto, molto più che un cimelio del passato. E poi c’è lo politica, cruda, spregiudicata, feroce. In tanti in queste ore si sono interrogati sulla provenienza dei voti (di opposizione) che hanno compensato quelli che Forza Italia ha ritenuto di non dare nella prima votazione per l’elezione del Presidente. E la curiosità è alimentata dall’insinuazione secondo cui lì si annidino coloro che, dall’altro campo, si preparano a puntellare la maggioranza, a offrirsi, a trattare, a tradire. Può essere che sia così. Chi sta dentro al Palazzo sicuramente lo saprà. Ma a me sembra che prima ancora di questo ci sia una verità ancora più banale, che marca l’imprinting di questa legislatura così come delle precedenti. La fredda logica della politica italiana. E la legge è questa: ogni crepa, ogni fessura, ogni interstizio che si creerà nella maggioranza sarà sfruttato dall’opposizione per indebolirla e possibilmente farla implodere. Anche compiendo scelte, che, magari, ai propri elettori potranno apparire spregiudicate. È una storia antica. Nulla di nuovo. Nella prima seduta del nuovo Parlamento l’allarme è stato suonato subito. L’avvertimento è stato dato. E certo viene colpita Forza Italia, la cui mossa tattica non ha sortito gli effetti sperati. Ma, attenzione, l’avvertimento è a tutta la maggioranza, e quindi anche a chi, di quella maggioranza, costituisce la parte più rilevante e che quella maggioranza guida.Nel labirinto pirandelliano della politica italiana, chi dovrebbe più preoccuparsi del modo in cui si è giunti al risultato è paradossalmente proprio chi dal risultato ottiene oggi obiettivamente il maggiore successo, Giorgia Meloni. Perché è colei che ha più da perdere per l’incursione delle opposizioni nelle crepe o negli interstizi che si aprissero nella sua maggioranza. Sulla capacità di evitare quelle incursioni, e ancor prima le crepe, si misurerà la sua leadership. Se per raggiungere quel risultato serva più bastone o più carota spetta a lei valutarlo. Ma è su questo che la storia, o la cronaca, valuteranno lei.