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Giorni fa il mio amico Dino Cofrancesco (liberale, direi conservatore, professore di dottrine politiche, osservatore acuto e anche spiritoso della politica italiana) mi faceva notare come in questa politica italiana sia avvenuto una specie di testacoda. Le posizioni del Pd e della sinistra sembrano molto vicine a quelle dell’Istituto “Bruno Leoni”, cattedrale del liberismo.Mentre lo schieramento sovranista solitamente considerato, per molte ottime ragioni, reazionario e di destra) ha scelto una linea politica di tipo socialista.In particolare Cofrancesco si riferiva alla questione delle nazionalizzazioni, così come è emersa dopo la tragedia di Genova. Al centro dello scontro c’è la domanda se nazionalizzare o no le autostrade, ma la discussione è assai più vasta. La direttrice di marcia dei gialloverdi al governo, almeno come si è manifestata in questi mesi ( e al netto dei fisiologici dissensi e contrasti tra i due partiti, e anche al loro interno) è la più statalista che si sia mai vista dai tempi della prima Repubblica. Il liberalismo berlusconiano è del tutto scomparso e anzi viene indicato come il massimo della malvagità e viene attribuito alla sinistra. La quale, peraltro, non fa molto per scrollarsi di dosso questa accusa, un po’, sicuramente, per senso di responsabilità, un po’ perché appare sempre più spaesata di fronte alle sfide della modernità. E non sa più come fare per restare sinistra e diventare liberale senza travolgere i suoi ideali e il suo mandato.La questione delle nazionalizzazioni non è la prima volta che si affianca alla discussione e alle polemiche dopo una grande tragedia nazionale. I vecchi ricordano la tragedia del Vajont, che fu purtroppo più grande ancora, molto più grande di quella di Genova: quasi duemila morti e un paese intero ( Longarone) cancellato dall’acqua che aveva scavalcato una gigantesca e modernissima diga costruita in quegli anni, molto alla svelta, sul monte Toc. Era il 9 novembre del 1963, il disastro fu causato da un pezzo del monte Toc che si staccò e cadde nel bacino della diga, provocando la apocalittica inondazione. In pochi minuti Longarone era diventato un ruscello. Nei mesi e negli anni precedenti i geologi e alcuni ( pochissimi) giornalisti avevano denunciato la follia di costruire la diga in un luogo dove era prevedibilissima la frana di quel pezzo di monte. Non furono ascoltati, e furono persino sbeffeggiati dalla stampa nazionale, anche da mostri sacri del giornalismo come Indro Montanelli e Giorgio Bocca, che diedero della “sciacalla” alla giornalista dell’Unità, Tina Merlin, che da anni gridava al pericolo. Trent’anni dopo Montanelli spiegò perché aveva preso quella posizione ( chiedendo scusa). Perchè - disse - ero contrario alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, e avevo l’impressione che lo scandalo del Vajont e le accuse alla società che aveva costruito la diga fossero costruiti per favorire la nazionalizzazione.Vedete, il pomo della discordia è sempre quello: la nazionalizzazione. In realtà le cose erano un po’ diverse da come le vide Montanelli. La nazionalizzazione dell’elettricità era nell’aria da qualche anno, e questa fu la ragione per la quale la società che stava costruendo la diga volle accelerare i tempi e non ascoltò gli allarmi di chi chiedeva che fosse cambiata la collocazione: la Sade ( si chiamava così la società) aveva fretta di finire il lavoro prima che partisse l’esproprio a favore della neonata Enel. Tutto questo però si seppe molto dopo, e allora i dirigenti della Sade non furono certo presi di mira dai giornali, come è avvenuto per Benetton, anzi i giornali li difesero da ogni critica.Lo scontro politico all’epoca fu tra il centrosinistra, guidato da Moro e Fanfani,che voleva nazionalizzare, e la destra liberale ( molto piccola in Parlamento, ma sostenuta da grandi potenze economiche) che voleva mantenere il mercatolibero. L’urto fu aspro, e in realtà il piano di nazionalizzazioni ( insieme alla proposta di riforma del regime dei suoli che avrebbe danneggiato la grande proprietà privata) fu messo in discussione in modo brusco e portò alla crisi del 1964 ( con il famoso tintinnar di sciabole, e le minacce e le voci di colpo di Stato) la cui conseguenza fu uno stop al programma di governo, la fine delle nazionalizzazioni e della legge sul regime dei suoli, e un ridimensionamento della componente di sinistra dell’esecutivo, con l’allontanamento del ministro Giolitti.Del resto era abbastanza normale una battaglia tra la destra liberale e la sinistra statalista.Ora è tutto rovesciato. Il centrosinistra, dal 1994 in poi, ha avuto un ruolo di primissimo piano nelle privatizzazioni, anziché nelle nazionalizzazioni, impegnando direttamente le sue figure più rappresentative ( che oggi in gran parte fanno parte di Leu: Bersani e D’Alema, per esempio). Poi, con la nascita del governo Monti, la capriola si è completata. Contro Monti - difeso dalla sinistra ha iniziato a crescere una corrente politica antieuropeista, sovranista e statalista, che ha nella Lega il suo pilastro, ma che ha assorbito largamente anche i 5 Stelle.Il risultato, a mio parere, non è eccellente. Perché la sinistra non è molto brava a fare la liberale, non ne ha le basi culturali, i sentimenti, la tendenza. E così anche la destra - o comunque la nuova componente gialloverde che si caratterizza per una ostilità molto forte verso la sinistra - non ha le doti per una gestione efficiente e solidarista delle nazionalizzazioni.Diciamo che la contrapposizione tra statalisti e liberali, di solito, è costruita su un doppio terreno: quello sociale e quello economico. La domanda è: come si crea più equità sociale e come si creano migliori condizioni economiche e più produttività? E la seconda domanda è: è l’equilibrio sociale a produrre produttività o viceversa? E quindi occorre favorire le compatibilità economiche o quelle sociali?Le risposte possono essere le più diverse. Ho l’impressione che finché destra e sinistra fanno il loro mestiere, il bilanciamento tra le due esigenze funziona. Quando Invece si scambiano i ruoli si rischia grosso. Per reciproca incompetenza. Cioè si rischia di danneggiare sia la tenuta economica sia l’insieme dei diritti sociali. Spero di sbagliarmi.