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Il ministro degli Esteri Antonio Tajani e il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini durante il Question time al Senato a Roma, Giovedì, 12 Settembre 2024 (Foto Roberto Monaldo / LaPresse) Foreign Minister Antonio Tajani and Infrastructure minister Matteo Salvini during Question time at the Senate in Rome, Thursday, September 12, 2024 (Photo by Roberto Monaldo / LaPresse)
«Meglio tirare a campare che tirare le cuoia». In giornate come quelle che sta vivendo la maggioranza di centrodestra, chissà se nella mente di Giorgia Meloni ha risuonato il vecchio adagio andreottiano, utilizzato dal Divo Giulio per replicare a chi lo accusava di guidare governi di piccolo cabotaggio, che avevano davanti a sé ambizioni raramente superiori alla semplice sussistenza.
In effetti, i segnali su un possibile rischio di declassamento delle ambizioni di questo esecutivo non mancano, soprattutto per quello che riguarda alcune riforme additate a inizio legislatura come imprescindibili. E che ora languono, vittime della guerra ormai di trincea scoppiata tra Lega a Forza Italia, nel pieno di un'escalation fatta anche di epiteti non proprio urbani pronunciati da chi non si era mai spinto all’invettiva, come ad esempio il portavoce azzurro Nevi, che ha dato del “paraculetto” a Salvini, prima di chiedere scusa.
Un episodio che fa il paio, anche se con toni più soft, coi famigerati “vaffa” a Tajani pronunciati a Pontida dai giovani leghisti, poi stigmatizzati dal Capitano. In questo quadro, i dossier appesi si stanno moltiplicando, e per alcuni di essi si fatica a intuire una via d’uscita. Partendo da quelli più contingenti, allo stato pare impossibile pensare che la presidente della Rai designata Simona Agnes, in quota FI, che già non godeva del necessario consenso tra le fila dell'opposizione, possa ora raggiungere la maggioranza qualificata dei due terzi dei membri della commissione di Vigilanza, dopo il duello rusticano che si è prodotto al Senato tra azzurri e leghisti, proprio sulla Rai, e che ha visto soccombere Salvini.
E che dire dell’impasse ormai cronaca del Parlamento in seduta comune, che non riesce a eleggere i giudici costituzionali di propria competenza e ha celebrato ieri la decima fumata nera? Nelle beghe di maggioranza sembra anche essersi incagliata la promessa riforma degli scaglioni Irpef, rinviata a momenti più propizi che difficilmente arriveranno, se si tiene conto del solo fattore economico, visto l’incombente rientro nei vincoli previsti dal nuovo Patto di Stabilità europeo.
A un livello più in alto, si trovano le tre Grandi Riforme del patto di legislatura delle forze di centrodestra, associate comunemente ciascuna a un partito di riferimento. Il quadro non è edificante, come è noto, soprattutto per la bandiera leghista, l’autonomia. Approvata in tempo record e con una tumultuosa seduta notturna del Parlamento, appare superfluo ribadire ancora una volta che la legge Calderoli rischia di essere parcheggiata su un binario morto dopo i numerosi rilievi della Corte costituzionale sul meccanismo di definizione dei Lep. Un’eventualità che, a questo punto, Forza Italia (già ampiamente scettica) vede con favore senza neppure bisogno di nasconderlo, ma che rischia seriamente di compromettere la sopravvivenza del governo, visto che l’instabilità appare già oggi un tabù violato.
Difficile pensare che un esito di questo tipo non possa avere ricadute sul premierato, la “madre di tutte le riforme”, secondo la dottrina meloniana, sulla quale le difformità di vedute tra il Carroccio e FdI si sono palesate nel corso dell’esame in Senato solo in forma lieve, data la lunghezza del percorso che dovrebbe portare ad approvazione il testo Casellati e del referendum che certamente si terrebbe. La scorsa primavera il Carroccio e il partito della premier si erano confrontati in maniera ruvida su alcune parti del testo, a partire dalla norma “antiribaltone” caldeggiata da Meloni, ma il vero nodo da sciogliere, su questo fronte, semmai la riforma dovesse andare a boccino, sarà la nuova legge elettorale, terreno su cui le varie forze politiche storicamente palesano la tendenza a un accordo.
Nel bailamme degli ultimi giorni, però, c’è una riforma che sembra poter attraversare indenne i venti di burrasca che hanno iniziato a soffiare in maggioranza: la separazione delle carriere. Prossimo all’esame in aula a Montecitorio, il ddl Nordio sull’ordinamento giudiziario è quello che appare ormai meno legato ad una singola componente del centrodestra.
Reclamato a gran voce da FI, adesso gode di un sostegno convinto e crescente da parte della presidente del Consiglio e del segretario del Carroccio. Nel caso di Salvini, sarebbe difficilmente giustificabile qualsiasi azione tendente a sabotare o a rallentare una riforma sostenuta anche in tempi non sospetti, attraverso una raccolta di firme assieme al Partito radicale per la celebrazione di un pacchetto di referendum, che comprendevano anche la responsabilità civile dei giudici.
Semmai, per il ministro dei Trasporti il problema è quello di moderare gli attacchi alla magistratura, per non prestare il fianco a quanti accusano il governo di voler procedere a una riforma vendicativa nei confronti delle toghe. E paiono andare proprio in questa direzione alcune affermazioni degli ultimi giorni del Guardasigilli, tese a riannodare i fili di un possibile per quanto esile dialogo con una parte dei magistrati.