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Nella foto, la segretaria PD Elly Schlein con il segretario CGIL Maurizio Landini
Messa da parte la battaglia sull’Autonomia, vista la sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il quesito referendario che puntava ad abrogare la legge, al Nazareno si fa un gran parlare di un altro referendum, che invece è stato ammesso dalla Corte.
E cioè quello che punta ad abrogare il Jobs act, legge simbolo dell’età del renzismo e sulla quale il partito è letteralmente spaccato a metà. Da una parte c’è la “vecchia guardia” del partito, rappresentata tanto per dirne uno da Pierluigi Bersani, che si è sempre opposta a quella norma tanto da uscire dal Pd con la celebre scissione che diede vita ad Articolo 1. Dall’altra ci sono i riformisti, vecchi “renziani” rimasti nel partito quando l’ex presidente del Consiglio sbattè la porta e creò Italia viva e che sostennero Stefano Bonaccini nella corsa alla segreteria contro Elly Schlein, poi risultata vincitrice. Da allora la componente “moderata” del partito, da Alessandro Alfieri a Lorenzo Guerini, da Stefano Sensi a Graziano Delrio, ha fatto le pulci alla segretaria sui temi più disparati, dalla politica estera con il sostegno indiscutibile all’Ucraina ai temi etici. Ma è sui temi del lavoro, e quindi in particolare del Jobs Act, che i riformisti non hanno alcuna intenzione di mollare la presa.
E così Schlein si ritrova stretta tra due fuochi: da un lato l’abbraccio con Maurizio Landini, vero deus ex machina del quesito che punta a ripristinare l’articolo 18. Schlein si è dichiarata più volte contro il Jobs Act e a favore del referendum, ma ora che ci sarà da rendere concreta questa linea, con banchetti in piazza e una campagna a tappeto, potrebbe farsi venire qualche dubbio. Negli scorsi giorni più voci si sono alzate dal partito per dire no alla cancellazione della legge, e la segretaria non potrà far finta di nulla. «Esprimo una mia opinione personale sul Jobs act: è legittima la posizione della segretaria Schlein, ma noi abbiamo approvato il jobs act - a suo tempo - per il superamento di diverse carenze nella difesa diritti dei lavoratori: le dimissioni in bianco, i cocopro, la precarietà, ed era previsto già da allora anche il salario minimo, battaglia del Pd - ha spiegato ad esempio Delrio - Quindi sui punti specifici ci possono essere differenze ma non rinnego quello che facemmo, perché mandò avanti il Paese: non approvo il referendum, troveremo una sintesi tra tutti, ma non mi pare che il complesso del Jobs act meriti una battaglia politica di cancellazione».
Ancor più duro Tommaso Nannicini, economista, sottosegretario ai tempi del governo Renzi e padre della riforma. «Quando non si riesce a leggere il presente per costruire il futuro, ci si rifugia nel passato - ha detto - Qualcuno pensa davvero di combattere la precarietà a colpi di referendum? Salari fermi, giovani senza prospettive, tecnologie che erodono il valore sociale del lavoro, cervelli in fuga, sfruttamento in settori a basso valore aggiunto e alto tasso di infiltrazioni criminali: quale di questi problemi verrebbe risolto con i referendum della Cgil? Nessuno. Quando è a corto di idee, il sindacato si rifugia nelle piazze o nei simboli». E criticando poi la posizione del Nazareno.
«Qualcuno dice che quella posizione segnala uno scivolamento a sinistra, un cedimento al massimalismo - ha spiegato A me sembra solo trasformismo. Che credibilità può avere un partito che demonizza una riforma che ha fatto poco tempo fa con un leader votato da otto militanti su dieci? Autorevoli dirigenti dell’attuale Pd guidato da Elly Schlein non solo hanno votato quella riforma, ma l’hanno elogiata in giro per le Feste dell’Unità».
Il riferimento è a pezzi da 90 come Fassino e Franceschini, ma anche lo stesso Guerini, i quali non hanno alcuna intenzione di rinnegare il passato. A ciò si aggiunge che negli anni la stessa Corte costituzionale ha negli anni svuotato la legge degli aspetti più controversi, per cui il referendum non tocca gli elementi fondamentali di quella riforma, dalla Naspi alle politiche attive, dalla stretta sulle false partite Iva alla cassa integrazione. Di fatto, ha ricordato Nannicini, «si limita a chiedere di abrogare un decreto che non esiste più, perché una sentenza della Corte Costituzionale l’ha già stravolto».
In caso di vittoria dei sì, insomma, si tornerebbe alla riforma del governo Monti del 2012, con l’indennizzo massimo in caso di licenziamento illegittimo che passerebbe da 36 a 24 mesi. Ma la strada ormai è tracciata, Schlein non può rinnegare quanto concordato con Landini, e cioè una campagna a tappeto, nonostante quella decisione fosse stata presa quando ancora sembrava possibile il referendum sull’Autonomia e dunque nella speranza che il “vento” contro la legge simbolo della Lega spingesse anche gli altri quesiti, a cominciare proprio da quello sul Jobs act e su quello per la riduzione dei tempi per ottenere la cittadinanza, cavallo di battaglia di Più Europa.
A Schlein dunque non resta che provare a “salvare il salvabile”, dando un colpo al cerchio e uno alla botte e cioè sostenendo il quesito ma senza dare troppo nell’occhio, per non irritare buona parte del suo partito. Una sorta di strategia dello struzzo: mettere la testa sotto la sabbia e sperare che nessuno la noti troppo.