Gli attacchi delle Idf contro le postazioni della missione Unifil in Libano di ieri e l’altroieri non sono un fulmine a ciel sereno. Dire che il governo italiano si aspettava un attacco conclamato e rivendicato sarebbe esagerare di molto ma lo sarebbe anche fingere che non temesse l’incidente da un momento all’altro. Pubblicamente nessuno lo ammetterebbe mai ma a porte chiuse le critiche rivolte al segretario delle Nazioni unite Guterres diluviano. Il ministro Crosetto, al quale spetta praticamente per intero la gestione della spinosissima faccenda, è quello che, non solo in Italia ma in Europa, ha usato i toni più duri. Lo rivendica e assicura di aver parlato nella stessa ruvida lingua anche all’ambasciatore israeliano e al ministro Gallant. Mercoledì aveva denunciato i «possibili crimini di guerra» dell’esercito con la stella di David. Ieri ha ribadito e rincarato: «Ho chiesto, provocatoriamente, cosa dobbiamo fare la prossima volta: ripondere al fuoco? L’Italia non prende ordini da nessuno, soprattutto se si trova in un luogo con mandato Onu per mantenere la pace. Non saremo noi a spostarci perché qualcuno ci chiede con la forza di farlo. Pretendo il rispetto dovuto a un Paese amico impegnato in una missione di pace».

Crosetto, nei mesi scorsi, è però stato anche il più determinato nel reclamare inutilmente una modifica delle regole di ingaggio e lo conferma adesso: «Lo chiedo da un anno e mezzo. Lo ho detto a tutti, che se non applichiamo la 1701 prima o poi arriva qualcun altro. Inascoltato». Quel «qualcun altro» non può che essere Israele perché con regole di ingaggio che praticamente obbligano i contingenti Unifil a non fare niente non c’è alcuna possibilità di garantire la smilitarizzazione della zona a ridosso del confine con Israele, quella da cui partono gli attacchi di Hezbollah. In questo modo, anche se involontariamente, la missione Unifil si risolve in un sostegno alle milizie sciite, che si tengono al coperto delle postazioni Onu sapendo di non poter essere in alcun modo minacciate dalle stesse.

Il portavoce della missione Andrea Tenenti segnala un altro elemento. Pur non potendo agire, la presenza dei contingenti permette grazie alle telecamere di monitorare la situazione tenendo costantemente informato il Palazzo di Vetro. È probabile che anche questo sia un elemento che spinge le Idf a volere a tutti i costi il riallineamento del contingente, in modo da avere le mani completamente libere da un lato e togliere la protezione di fatto a Hezbollah dall’altro.

Al di là dei ruggiti di Crosetto e della posizione molto più diplomatica di Tajani («Attacchi inaccettabili. Mi aspetto le scuse di Israele. I soldati italiani non si toccano»), la situazione a questo punto è molto complicata per tutti. Ieri il ministro degli esteri francese ha convocato l’ambasciatore israeliano. Berlino e Madrid hanno denunciato l’attacco con toni appena meno duri di quelli del ministro della Difesa italiano. I quattro Paesi stanno preparando la conferenza in call della settimana prossima, alla quale parteciperanno tutti i 40 Paesi che contribuiscono alla missione. La vicenda terrà banco anche nel consiglio europeo del 17 e 18 prossimi. Già, ma con quale obiettivo?

Il governo italiano è convinto che Israele non si fermerà e del resto è lo stesso Stato ebraico a confermarlo ufficialmente. Una modifica delle regole di ingaggio ora, oltre che improbabile, sarebbe fuori tempo massimo, essendo la guerra di fatto già divampata. La proposta italiana di una soluzione diplomatica basata sulla proposta di affidare alla missione il compito di garantire il controllo della fascia a ridosso del confine è caduta nel vuoto e comunque con queste regole sarebbe inutile. Gli attacchi però rendono poco praticabile anche il ripiegamento chiesto da Israele, che a questo punto suonerebbe come una resa al diktat di Gerusalemme (anche se ieri una parte del contingente sulla prima linea è effettivamente ripiegato come chiesto dalle Idf).

Politicamente, la posizione del governo è più che scomoda. L’opposizione incalza, chiede e otterrà che il governo riferisca in aula, in un dibattito che non sarebbe affatto facile per l’esecutivo. La sua ala più radicale, il M5S, non si accontenta di chiedere lo stop all’invio delle armi ma vuole addirittura la rottura dei rapporti commerciali e diplomatici con Israele. Nel complesso, la premier rischia forte di fare la figura di una leader debole e imbelle che non riesce neppure a difendere i militari impegnati in una missione di pace. L’imbarazzo si impennerebbe se dovessero continuare gli attacchi contro il contingente italiano e, peggio, se ci dovesse essere qualche ferito.

Per tutti questi motivi quel che l’Italia auspica è che a decidere che le condizioni per la missione sono venute meno, decretando il ritiro delle truppe, siano la prossima settimana le Nazioni unite.