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«I o sono qui, anche oggi, per solennizzare l’entrata in funzione di un grande stabilimento industriale, questa volta rappresentato dal complesso degli impianti del IV centro siderurgico dell’Italsider. E anche in questa occasione voglio recare agli italiani del Mezzogiorno l’assicurazione che lo Stato ha preso effettivamente e seriamente coscienza della realtà meridionale e si adopera per mutarla». È il 10 aprile del 1965 quando il primo presidente socialista della storia repubblicana, Giuseppe Saragat, taglia il nastro dello stabilimenti Ilva di Taranto. I più importante d’Italia, il più imponente d’Europa. La “prima pietra” risale quattro anni prima, nel 1961, poco importa che l’immensa struttura sorga a ridosso di un quartiere, Tamburi, che negli anni si espanderà ulteriormente proprio per far spazio alle nuove palazzine costruite per gli operai. Sono anni di espansione economica, bisogna produrre per arricchire gli italiani. Il lavoro prima di tutto. Nessuno pensa al possibile impatto ambientale di un “mostro” che si estende per 1500 ettari, il doppio dell’intera città di Taranto. Lo Stato investe come un privato – circa quattrocento miliardi di lire – e crea ricchezza per tutti con l’acciaio “pubblico”.
Non solo Bagnoli, l’acciaio muta i contorni di un Mezzogiorno povero e arretrato e “inventa” un nuovo mestiere: l’operaio. Anche in Puglia, dove chi non cerca fortuna al Nord sembra destinato a vendere “fatica” nei campi, sotto il sole che spacca il viso. Contadini si trasformano in tute blu sindacalizzate come a Genova, come a Torino che tuttavia mantengono vivo il legame con la terra. È un operaio particolare quello dell’Ilva, un «metalmezzadro», lo ribattezzerà Walter Tobagi, sul Corriere della Sera nel 1979. «È metalmeccanico, lavora nello stabilimento Italsider. Abita nei paesi della provincia e trova il tempo per coltivare il pezzo di terra», scrive Tobagi. «Su trentamila stipendiati della più grande industria del Sud, almeno la metà appartiene alla categoria dei metalmezzadri. E sono loro che hanno reso “ricchi” comuni di antica miseria come Grottaglie, Manduria, Massafra, Mottola, Laterza, Venosa». Operai dentro le acciaierie, contadini tra le mura domestiche. «Taranto è la più prosperosa delle città del Meridione: il reddito pro crapite sfiora il milione e 300mila lire, che grosso modo corrisponde alla media nazionale. Il metalmezzadro se la passa meglio», racconta ancora Tobagi. «Dall’Italsider ricava, in media, altri due milioni sotto forma di “autoconsumo” della verdura e dei polli che fa in cortile. Verso la piana di Metaponto, dove l’irrigazione è più facile e la terra rende meglio, ci sono dipendenti dell’Italsider che mandano avanti anche aziende di barbabietole».
Solo l’acciaio può liberare le masse meridionali dalla miseria, ragiona qualcuno. E all’acciaio si pensa quando bisogna sedare la sollevazione popolare più lunga della Repubblica: la rivolta di Reggio Calabria del 1970. Per “compensare” la popolazione reggina privata del capoluogo di Regione, assegnato a Catanzaro, il governo Dc guidato da Emilio Colombo promette sviluppo in riva allo Stretto attraverso la creazione del quinto centro siderurgico italiano. È il “pacchetto Colombo”: lo stabilimento sarebbe dovuto sorgere a Gioia Tauro, ma il progetto non vedrà mai la luce.
La “fede nell’acciaio” comincia a vacillare, insieme al mito dello Stato imprenditore. Ma nessuno ancora si interroga sull’impatto ambientale della produzione pesante. Il ricatto occupazionale vince sulla paura della morte, meglio inquinare che non avere nulla da portare in tavola. Nello stesso anno dei “fatti di Reggio”, il centro siderurgico di Taranto produce il 41 per cento dell’acciaio Italsider, dieci anni dopo quasi l’ 80.
Con gli anni Ottanta, però, arriva anche la crisi della siderurgia italiana. Tutti gli stabilimenti Ilva vengono chiusi o venduti, lo Stato si ritira. Il centro più importante, quello di Taranto, passa nelle mani del gruppo Riva nel 1995. La “fabbrica” cambia drasticamente e con lei i contratti. Chi non accetta di buon grado le novità introdotte dai nuovi padroni viene spedito in visita alla Palazzina Laf. La punizione si consuma in una struttura attigua al “Laminatoio a freddo”: gli operai disobbedienti vengono rinchiusi in un edificio senza alcun macchinario per tutto il turno di lavoro, vengono pagati per non far nulla. È uno dei più gravi casi di mobbing di sempre. Ma Riva significa anche produzione e giro d’affari miliardario su cui vale la pena chiudere un occhio, almeno per alcuni. Non per la procura di Taranto, convinta che l’enorme ricchezza del gruppo derivi anche dal mancato ammodernamento degli impianti. Una dimenticanza che, per i pm, potrebbe aver causato la morte di migliaia di tarantini che nei giorni in cui il vento spira da Nord sono costretti a barricarsi in casa per evitare di esporsi a rischi. Nel 2012 i magistrati depositano le perizie chimiche ed epidemiologiche. Tra le le sostanze disperse in modo incontrollato risultano polveri, diossido di azoto, anidride solforosa, acido cloridrico, benzene e diossine. La perizia epidemiologica parla di 11.550 morti per cause respiratorie e cardiovascolari. Il 26 luglio Emilio e Nicola Riva ( padre e figlio) vengono arrestati per disastro ambientale colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose. Per la gip di Taranto, Patrizia Todisco, «chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza». Ma vengono posti i sigilli i sigilli per sei reparti dell’area a caldo e gli operai scendono subito in strada per timore di perdere il lavoro.
L’anno successivo, nel 2013, i cittadini sono chiamati a esprimersi sul futuro dell’acciaieria con un referendum. L’ 81 per cento dei partecipanti chiede la chiusura dell’impianto, ma la consultazione è un vero e proprio flop: si reca alle urne meno del 20 per cento dei tarantini. Lavoro o salute, salute o lavoro? Inizia la lunga fase del commissariamento. Il dilemma che per decenni in tanti hanno preferito evitare, quando non negare, si ripresenta con ancora più violenza.
Fino ad arrivare agli ultimi giorni: da un lato il futuro quasi 12 mila dipendenti e altri 4 mila lavoratori dell’indotto, dall’altro la difficoltà a produrre acciaio in maniera più pulita in tempi rapidi. La multinazionale lussemburghese Arcelor- Mittal si è aggiudicata il controllo della siderurgia italiana mettendo sul tavolo 5 miliardi ( di cui 1,5 da investire nel risanamento). Tra gli impegni assunti, una riduzione consistente delle emissioni inquinanti: meno 15 per cento di anidride carbonica per tonnellata di acciaio liquido prodotto e abbattimento di polveri (- 30 per cento) e diossine (- 50). Ma per il neo ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, lo sforzo non è ancora soddisfacente. Il tempo delle scelte scade il 15 settembre, nella speranza che per una volta lavoro e salute possano stare insieme.