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Era il settembre 2014 e alla Festa dell’Unità a Bologna Matteo Renzi aveva riunito il socialismo europeo. Erano venuti: dalla Francia, Valls; dalla Spagna, Sánchez; dalla Germania, Post; dall’Olanda, Samsom; e, benché invitati, avevano dovuto rinunciare Miliband, dalla Gran Bretagna, alle prese con il referendum scozzese, e, dalla Grecia, Tsipras, alle prese con le questioni del debito e della trattativa con la Germania del rigore. C’erano trenta gradi ma Renzi li aveva voluti insieme alla stessa tavola davanti a un fumante piatto di tortellini in brodo e poi, eccoli lì, in camicia bianca sfavillante per la foto di gruppo. Giovani, arrembanti, determinati a prendersi l’Europa: Matteo, Manuel, Pedro, Achim e Diederick. Dovevano far paura, con quella loro forza e giovinezza, ai mercati, ai vecchi padroni dei partiti socialisti, alle destre e ai movimenti populisti in ascesa. Dopo poco più di due anni, quella foto fa solo quasi tenerezza. Il primo a cadere fu Ed Miliband. Il 7 maggio 2015 si votava in Gran Bretagna per il rinnovo del parlamento. Fino alle dieci di sera della giornata elettorale, Ed era dato come uno dei probabili candidati a varcare la soglia di 10 Downing Street. La campagna era stata dura ma Miliband era cresciuto, conquistandosi il rispetto e il timore degli avversari, a cominciare dal conservatore Cameron. Cinque anni prima, Miliband era stato scelto, dentro il Labour, per mettere pace tra le due anime del partito: l’ala più blairiana che ricordava ancora con nostalgia i successi elettorali dell’era Blair – e beh forse sì, il partito aveva ormai perso ogni identità storica – e l’ala più intransigente e radicale che voleva tagliare con quella destra interna del business e tornare a guardare al lavoro, agli operai, alle periferie. Si era mosso con abilità, senza forzare da una parte o dall’altra, nell’insieme però cercando di ritrovare l’anima laburista. Aveva battuto anche il fratello, candidato alle primarie: aveva appena quarant’anni, il più giovane leader laburista dalla Seconda guerra mondiale. Lo avevano soprannominato Ed il Rosso. Alle dieci e un minuto della sera, ai primi dati di quella giornata elettorale Ed il Rosso era un politico finito. Cameron gli aveva inflitto una sonora sconfitta e, soprattutto, nell’area storica del voto laburista, la Scozia, i nazionalisti si erano mangiati letteralmente il partito. Eppure, Miliband aveva parlato di riduzione delle tasse universitarie, di finanziamenti miliardari al sistema sanitario nazionale, di aumento del salario minimo, di congelamento delle bollette, di borse di studio per studenti meritevoli, di asili nido per giovani coppie lavoratrici. Come era stato possibile preferire i tory ai solidali laburisti? Forse il programma non era credibile: Cameron aveva parlato di lacrime e sangue (aveva fissato in dodici miliardi di sterline il taglio alle spese sociali) e era sembrato responsabile e maturo. Il messaggio, chiaro, era passato, quello, indeciso, di Miliband no. Nel partito si riaprì la guerra fra fazioni e alla fine prevalse Jeremy Corbyn. Corbyn era un uomo della vecchia guardia. Oggi, dopo il voto del Leave, ha anche lui i suoi guai. A cadere è stato anche Pedro Sánchez, el Guapo. Pedro Sánchez, in carica dal 2014, aveva firmato cinque sconfitte storiche per i socialisti, in altrettante elezioni: due politiche, poi le catalane, le basche e le galiziane. Il Psoe è precipitato dal 48 percento che aveva negli anni Ottanta al 22 virgola qualcosa. È stato l’uomo del ribadito no – «No è no! Che parte del no non capisce, signor Rajoy? », disse di fronte all’ipotesi di appoggiare un governo di minoranza guidato dal leader popolare Mariano Rajoy, vincitore delle politiche ma senza maggioranza assoluta, che avrebbe permesso di fare uscire la Spagna da una paralisi istituzionale che durava ormai da dieci mesi. Dal voto del dicembre 2015. Quelle elezioni avevano sancito la fine del bipartitismo spagnolo: il risultato delle urne aveva premiato sì i popolari di Rajoy, primo partito con il 27,8% dei voti e 123 seggi, ma non abbastanza per governare da soli. I socialisti di Sánchez avevano ottenuto invece il 22,02% dei voti e 90 seggi, mentre gli anti-casta di Podemos guidati da Pablo Iglesias erano diventati il terzo partito, con il 20,65% dei voti e 69 seggi. Uno stallo. Che portò a vari incarichi da parte del re e a un nulla di fatto e che obbligarono a nuove consultazioni. Medesimo risultato: tripartitismo e nessuna coalizione possibile. Dentro il Psoe cresce l’insofferenza per il “no” di Sánchez, a guidarla una vecchia volpe, Felipe González, il “magico” leader che aveva guidato la Spagna dal 1982 al 1993 – un record di stabilità. E così, di fronte alle dimissioni di mezzo Comitato esecutivo del partito, e il no alle sue proposte del Comitato federale, Sánchez si è dimesso. Rajoy ha potuto formare un suo governo, la Spagna non andrà alle terze elezioni in un anno. A cadere, adesso, dopo il referendum del 4 dicembre è stato Matteo Renzi. E gli altri? Pochi giorni fa è arrivato l’annuncio di Valls. «Sì, sono candidato alla presidenza della Repubblica». Valls, primo ministro socialista, lo ha annunciato da Evry, città alla periferia di Parigi di cui è stato sindaco per oltre dieci anni: «È arrivato il momento di andare più in là nel mio impegno. Il senso dello Stato mi fa ritenere che non posso essere più primo ministro». Hollande si è tirato indietro, «con alto senso dello Stato», certo, ma soprattutto perché qualsiasi sondaggio lo dava senza alcuna chance. Valls dovrà passare per le primarie del partito a gennaio. Bisogna fare presto, perché intanto il centrodestra ha scelto il suo candidato, François Fillon, e Marine LePen continua a crescere nei sondaggi. Alexis Tsipras continua a navigare a vista nella sua Grecia alle prese con i problemi legati al rientro dal debito – ovvero, con i tagli sociali imposti dalla Germania – e quelli legati all’impatto dei continui sbarchi sulle sue coste. La sua popolarità, che aveva raggiunto un livello incredibile durante il referendum che aveva lanciato per chiedere al suo popolo se accettare o no il ricatto dell’Europa, è in continua discesa. Sembra un personaggio in declino, con una forte drammaticità – la rottura con Varoufakis fu un momento intenso – e un senso di responsabilità che si è caricato sulle spalle. L’errore più grave di Tsipras fu quello di essere stato abbandonato al suo destino – da solo contro il potere economico e politico della Germania. Non lo aiutarono i socialisti francesi, né quelli spagnoli, né quelli olandesi, né quelli tedeschi, né quelli inglesi, né quelli italiani. La sconfitta di Tsipras fu forse il momento in cui quella foto alla Festa dell’Unità di Bologna del 2014 in camicia bianca sfavillante era già solo un ricordo di belle speranze e nulla più.