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Giuseppe Conte spera ancora nell’impresa impossibile di riuscire a riaprire il canale di comunicazione col Pd in vista delle elezioni. Ma a due mesi dal voto e con Enrico Letta deciso a non avere più a che fare con chi ha voltato le spalle a Mario Draghi, più che un’impresa servirebbe un miracolo. L’avvocato comincia a capirlo e da un’iniziale fase di remissività seguita allo scioglimento delle Camere, il leader M5S comincia a mostrare segni di insofferenza nei confronti dei quasi ex alleati. «Ormai la macchina delle primarie siciliane è partita e domani ( oggi, ndr) il Movimento vi prenderà parte», ha detto l’ex premier, riferendosi alla selezione per il candidato governatore siciliano. «In queste ore però leggo diverse dichiarazioni arroganti da parte del Pd. Non accettiamo la politica dei due forni. Quel che vale a Roma vale a Palermo». In altre parole: se ai dem andiamo bene per le elezioni in Sicilia, perché non dovremmo andare bene anche per le Politiche? Domanda retorica a parte, è la prima volta, dal governo giallo- rosso in poi, che Conte usa toni severi nei confronti del Pd. E c’è da scommettere che da qui al 25 settembre il confronto non farà altro che inasprirsi, perché con ogni probabilità i due partiti si troveranno a competere su fronti opposti.
Ed è proprio in vista di questa divaricazione che il leader grillino comincia a muoversi oltre il perimetro disegnato fino a qualche giorno fa col Nazareno, alla ricerca disperata di possibili nuove alleanze. Obiettivo: creare un nuovo fronte progressista in miniatura per rosicchiare un po’ di consensi alla sinistra del Pd. Certo, il Movimento dovrebbe trasformarsi in una sorta di France Insoumise in salsa italica e Giuseppe Conte in una brutta copia di Jean- Luc Mélenchon. L’avvocato non ha esettamente il phisique du role del leader della sinistra radicale francese, né un partito esattamente ricettivo a una scelta di campo così definita, ma è vero nche egli utlimi tempi l’ex premier ha spostato visibilmente a sinistra la sua agenda. Salario minimo, difesa del Reddito di cittadinanza, tutela del potere d’aquisto dei ceti più colpiti dalla crisi, battaglia per i contratti nazionali. Sono state queste le parole d’ordine dell’ultimo Conte, contenute anche nel famigerato documento di nove punti consegnato a Draghi prima di sfilarsi dal governo. Ed è proprio su questi temi che il capo dei 5S sogna di convincere Pierluigi Bersani a stracciare il patto elettorale col Pd per costruire il nuovo fronte progressista col M5S. Il corteggiamento va avanti da tempo, con tanto di telefonate e argomentazioni politiche messe sul piatto. L’idea affascina anche molti dirigenti di Articolo 1, convinti della necessità di mantenere aperto il dialogo col contismo, ma nessuno si sognerebbe mai di lasciare la solida nave di Letta per salire sulla barca dell’avvocato. Anche perché persino il segretario della Cgil Maurizio Landini, che a quelle latitudini ha un peso politico non indifferente, non sembra aver gradito lo strappo pentastellato. Pur critico nei confronti di Draghi, infatti, Landini ha chiamato Conte più volte mercoledì scorso per convincerlo a desistere dall’intento barricadero. La decisione finale dell’ex premier ha allontanato sensibilmente la Cgil dal Movimento, con cui fino a poche ore prima giocava di sponda sui temi sociali.
Anche Bersani, dunque, potrebbe rivelarsi una chimera. Così a Conte, alla sinistra del Pd, non restano che sigle semi sconosciue o semi estinte. Ieri si è fatto avanti l’ex sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, lanciando un appello alla costruzione del «campo aperto dei non allineati». Ma il suo partito, DeMa, oltre i confini partenopei è praticamente inesistente. Potrebbe essere interessata al progetto la rediviva Rifondazione comunista, ma difficilmente i grillini si unirebbero alla falce e martello. E persino il “Cocomero” l’alleanza rosso verde tra la Sinistra italiana di Nicola Fratoianni e i Verdi di Angelo Bonelli sembra preferire l’agenda Draghi sventolata da Letta all’agenda progressista sbandierata da Conte.
Il rischio concreto è che il Movimento, in assenza di alleati significativi, preferisca la strada solitaria, accantonando definitivamente il sogno progressista. Perché in assenza alleanze si spalencherebbero di nuovo le porte del partito ai vari Alessandro Di Battista e Virginia Raggi: un tentativo disperato di recuperare qualche consenso tra i nostalgici dell’uno vale uno, un ritorno al passato che però non esiste più.