Il 13 novembre, con l’incontro tra la premier Meloni e i procuratori “antimafia”, ha segnato uno spartiacque sulla riforma della giustizia. Che ormai sarà competenza di Palazzo Chigi, negli uffici della presidente e del sottosegretario Mantovano - i due veri interlocutori della magistratura- più che del guardasigilli Carlo Nordio.

Forse aveva ragione Silvio Berlusconi quando un anno fa, nel proporre Elisabetta Casellati quale ministro di giustizia, evidenziava l’importanza per un governo di centrodestra di avere un guardasigilli competente e garantista, ma che fosse anche un politico di fiducia. Poi però si era arreso di fronte al fatto plateale che la premier Giorgia Meloni, leader di un’area politica di destra che spesso aveva frenato le riforme sulla giustizia, avesse scelto un campione di garantismo come Carlo Nordio. Benché magistrato, un fatto che forse il leader di Forza Italia, insieme a tanti altri di noi, aveva sottovalutato. Ma che è invece emerso piuttosto rapidamente, quando ci si è resi conto che per esempio nel ministero di via Arenula, nonostante la timida riforma di Marta Cartabia, non era cambiato pressoché nulla rispetto alla massiccia presenza di toghe.

Solo un cambio di colore, dalle casacche “rosse” scelte dai ministri di sinistra a quelle “nere” più gradite al governo di destra- centro. Fino al vero insulto al principio della competenza quando fu licenziato dal vertice del Dap un altro campione di garantismo come Carlo Renoldi, che fu sostituito da Giovanni Russo, magistrato di diverso orientamento culturale. Travasi di personale che di fatto non producono grandi cambiamenti, dal momento che, per un governo con un buon programma di riforme sulla giustizia, il freno arriva sempre, più che dalla magistratura di destra o di sinistra, di questa o di quella corrente, dalla corporazione giudiziaria. Quello è il vero freno. Il corpus delle toghe è conservatore. Teme i cambiamenti.

E sotto sotto, nonostante le grida e ogni tanto qualche esibizione di forma ribellistica (“Il Parlamento non sia supino e acquiescente alle affermazioni dei pm”), anche il ministro Nordio quella toga che è diventata il freno alle riforme che lui sognava con libri e commenti sui giornali, non l’ha mai abbandonata. Tanto che lo rivendica ogni volta in cui ribadisce la necessità di separare le carriere, quando precisa subito che mai il pm dovrà rispondere della propria attività al governo. Come se in Francia o negli Stati Uniti non fossero rispettati i diritti dell’individuo visto che, pur con sistemi molto diversi tra loro, nei loro ordinamenti il pm dipende dal ministro di giustizia o ha comunque un ruolo politico.

Ma non si può non credere alla buona fede del ministro Nordio, né al suo impegno per riformare le norme sull’abuso d’ufficio e le intercettazioni, oltre alla riforma delle riforme, quella sulla separazione delle carriere. Le vuole fare, ma quando? Il primo anno del governo Meloni sulla giustizia ha avuto un andamento decisamente contro- riformatore. Dopo aver inserito nel programma, e ribadito in modo reiterato la necessità di impegnarsi per “una forte depenalizzazione” e una “riduzione dei reati”, secondo le dichiarazioni del guardasigilli, si

è passati dal decreto che ha creato la nuova fattispecie di reati di “occupazione musicale” all’ “omicidio nautico”, fino al mantenimento dell’ergastolo ostativo. E sappiamo bene che invece sul piano delle riforme, quelle sulla giustizia sono tornate a essere le vere cenerentole. Le priorità sono altre, in primis la riforma costituzionale sul premierato e quella sull’autonomia differenziata. Per il resto non c’è fretta.

Se questa è la cornice, non può stupire l’incontro della triade Meloni- Mantovano- Nordio con i vertici della magistratura “antimafia”, incontro voluto e sponsorizzato dal Procuratore nazionale Giovani Melillo, il numero uno del settore. Non va trascurata la presenza, accanto alla premier e al guardasigilli, del sottosegretario a Palazzo Chigi Alfredo Mantovano. Un magistrato molto radicato nella corporazione delle toghe e nel suo mondo più conservatore, oltre che politico della destra con parecchie legislature alle spalle. Uno che, sicuramente più di Nordio, sa nuotare in quel mondo come un pesce nell’acqua. Un trait d’union? Chissà. Ma non è passata inosservata la novità di quell’incontro. Perché, benché due precedenti premier, Conte e Draghi, avessero ricevuto l’identico invito dai procuratori antimafia, nessuno di loro aveva anche incontrato i 26 rappresentanti distrettuali.

Nomi di peso come il neo- milanese Marcello Viola e il neo- napoletano Nicola Gratteri, piuttosto che Raffaele Cantone, procuratore di Perugia. Il dialogo è aperto. Ammutolito il ministro guardasigilli che voleva il processo all’americana e la diminuzione dei reati. Visibilmente soddisfatta la presidente del consiglio, la quale auspica una sorta di lavoro in comune tra governo e procure “antimafia”, tralasciando con disinvoltura l’abisso che dovrebbe separare i duo ruoli: il governo titolato a combattere i fenomeni eversivi e il pm che deve individuare ogni responsabile di ogni singolo reato.

Ma del resto questo governo più di altri del passato, di centrodestra o di sinistra, si è già allineato alle peggiori deformazioni dello Stato di diritto e anche delle pronunce della Consulta e della Corte europea dei diritti dell’uomo. Lo ha fatto quando ha ripristinato la procedibilità d’ufficio dei reati con l’aggravante del metodo mafioso e sull’ergastolo ostativo. E infatti i procuratori nell’incontro organizzato da Giovanni Melillo l’hanno ringraziata.

L’impressione è che questo 13 novembre abbia segnato una vera svolta. E che d’ora in avanti il programma sulla giustizia, quello che conta e che piace ai magistrati, sarà realizzato direttamente in due diversi uffici di Palazzo Chigi, quello della premier e quello del sottosegretario. Se il ministro Nordio non fosse un pm in pensione e avesse una qualche esperienza politica, forse troverebbe la forza di ribellarsi. Ma sarà difficile. Forse gli sarà lasciata la possibilità di qualche insignificante ritocco, ma nulla di più.