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LaPresse
Molte parole su natalità, lotta all'immigrazione illegale, competitività, quasi nessuna sulle nomine e gli indirizzi politici dell’Unione europea. Viktor Orban e Giorgia Meloni, nel pomeriggio a Palazzo Chigi, non potevano che partire dalle cose su cui sono d’accordo, o formulare frasi di prammatica, data la cornice istituzionale dell’incontro e la ragione del viaggio del leader ungherese, che si appresta a rilevare il testimone della presidenza del Consiglio Ue. Una cosa, però, Orban, l’ha voluta chiarire, per chi ipotizzava ancora un accordo last minute per entrare nella famiglia dei Conservatori: i suoi eurodeputati non faranno parte dell’Ecr guidato da Meloni e costituiranno dunque un gruppo a parte, rendendo così più eterogenea la galassia della destra europea.
Apparentemente, il motivo che Orban ha addotto è la presenza nel gruppo Ecr di un partito romeno a suo avviso “anti-ungherese”, ma le ragioni sono evidentemente più complesse e investono le sue strategie di politica nazionale per i prossimi anni.
Lontano dai microfoni, però, e tenuto conto anche della durata del faccia a faccia (circa un’ora e mezza), difficilmente i due non hanno provato a buttare giù un’ipotesi di coordinamento per le immimenti e delicate scadenze dalle quali usciranno gli assetti continentali. Questa sarà infatti la settimana che porterà al Consiglio europeo che formalmente dovrà indicare i candidati per i top jobs dell’Unione, a partire dalla richiesta di un bis per Ursula von der Leyen al vertice della Commissione. Molte cose sono cambiate dall'inizio della precedente legislatura, quando Orban incarnava il modello da seguire per i sovranisti d’Europa e Meloni era solamente la presidente di un piccolo partito d'opposizione, e non di un intero paese fondatore dell'Unione. Ecco perché, i due, nel faccia a faccia di ieri, hanno badato soprattutto a come non guastare un rapporto che l'inerzia della realpolitik non potrà che raffreddare e portare su sponde più lontane di quanto non lo siano state finora.
A congiurare contro quello che è stato tra i legami più saldi del sovranismo degli ultimi anni, l'obbligo, per la nostra premier, di non lasciare l’Italia fuori dai giochi che contano, di portare a casa un commissario importante e – se possibile – anche una vicepresidenza. Le tempistiche, inoltre, non giocano a favore di Palazzo Chigi, dato il pressing di Berlino e Parigi per blindare un accordo che favorisca i due big continentali prima delle elezioni francesi. Quello che Meloni avrà chiesto a Orban, dunque, è di mettersi nei suoi panni, lui che più intuire quali siano le responsabilità di un capo di governo, e di non favorire una campagna politica a lei ostile, da parte dei gruppi politici che a lui fanno riferimento, nel caso fosse costretta a bere l'amaro calice dell'accordo con Popolari e Socialisti, per dare all’Italia quello che le spetta. Orban, durante la campagna elettorale per le Europee, pur non facendo parte del gruppo dei Conservatori, non ha mai messo in difficoltà la nostra presidente del Consiglio per i suoi discreti rappporti con von der Leyen, a differenza di quanto ha fatto Marine Le Pen e il suo vicepremier Matteo Salvini dal fronte destro di Id. Il paradosso, in questa fase, è che i rischi maggiori, sul terreno dell propaganda, per Meloni vengono proprio dal “fuoco amico” rappresentato dalla Lega di Matteo Salvini più che dalla leader di Rassemblement national (concentrata sulle legislative francesi), e dai tedeschi di Afd, sempre più mine vaganti.
Ma il buon esito delle Europee, associato alla promessa mantenuta alla Lega di far approvare l’Autonomia, ha fornito alla premier la sicurezza necessaria per andare a trattare con gli azionisti di maggioranza dell'Ue, senza temere contraccolpi, presentandosi anche al tavolo con una candidatura a Commissario “made in Ecr”, come quella del ministro Raffaele Fitto. Tornando a Orban, quest'ultimo non può che trarre vantaggi dall'avere una sua interlocutrice storica nella stanza dei bottoni, come ha dimostrato lo sblocco di una parte dei soldi spettanti all'Ungheria dal Pnrr e dai fondi strutturali alla fine dello scorso anno, dovuti all'intermediazione di Meloni tra Budapest e Bruxelles, in cambio di una linea più morbida del leader ungherese sugli aiuti a Kiev. Non a caso, la situazione di precarietà in cui versa l’Ungheria su questo fronte, era stata implicitamente evocata dal più europeista dei nostri membri del governo, Antonio Tajani, prima dell'incontro Meloni-Orban, quando aveva affermato di essere al lavoro per far cadere i veti sugli aiuti militari: «Oggi (ieri, ndr) c'è la visita del premier Viktor Orban in Italia», ha detto, «noi come sapete siamo fortemente impegnati per la tutela dell'integrità territoriale dell'Ucraina».