Giorgia Meloni ha perso. Non è la sconfitta in un classico braccio di ferro per una postazione di rilievo ma la defaillance di una strategia politica perseguita metodicamente per quasi due anni e che appena poche settimane fa, dopo il successo del G7, la premier italiana dava per quasi già vinta.

Da quando si è insediata a palazzo Chigi, la leader ex sovranista ha scommesso tutto proprio sull’Europa. Ha tessuto rapporti molto stretti con il Ppe e in particolare proprio con la presidente e ricandidata Ursula von der Leyen. Sfruttando la rendita di posizione garantitale dall’ardito e tempestivo slittamento iper atlantista, forte anche della benevolenza non solo politica ma anche personale del presidente Joe Biden, l’underdog ha cercato di imporsi come nuovo punto di equilibrio di un’Unione europea spostata a destra, cerniera tra la destra all’arrembaggio e un Ppe deciso di conseguenza a sbilanciarsi appunto a destra.

Dopo le elezioni europee, la leader di FdI e dei Conservatori europei ha pensato di essere a un passo dal tagliare quel traguardo. Era la sola governante non uscita in ginocchio dalla prova elettorale, la sola esponente di una destra in avanzata ovunque con la quale l’establishment europeo potesse avere rapporti. Godeva di una credibilità personale coronata dal G7 in Puglia. Invece tutto le si è rivoltato contro nel giro di un paio di settimane. Per quanto sconfitti nelle urne i socialisti e i liberali hanno ancora la forza per condizionare il Ppe vincente. Messi con le spalle al muro dalla minaccia delle destre in Francia, in Germania e un po’ ovunque la hanno fatta valere con un gioco durissimo, spregiudicato, quasi brutale: un modo di fare politica al quale Giorgia Meloni, esperta in Italia ma totalmente digiuna di giochi e tranelli livello internazionale, non era preparata. Ed è finita in trappola.

Da perno degli equilibri europei e Queen Maker, quel che pensava di essere, si è scoperta reietta, messa all’angolo, isolata e umiliata. La carica delle opposizioni può essere ingenerosa ma è comprensibile. Dopo due anni spesi a magnificare il nuovo protagonismo dell’Italia ritrovarsi messa da parte, con tanti attestati di stima per lei e per il suo Paese ma nessuna sostanza, la espone al massacro politico in corso ed è normale che sia così.

Ma la partita non è finita. Chiusa all’angolo la grande sconfitta della partita europea ha fatto l’unica mossa che le restava a disposizione: votare contro la presidenza Costa per il Consiglio europeo e quella Kallas per l’Alto commissariato alla politica estera, posizione dimostrativa e priva di effetti concreti, e astenersi su quella di Ursula alla permanenza a capo della Commissione europea. Segnale doppio: minaccioso ma anche aperto alla trattativa per cercare di rovesciare le sorti della sfida di qui al 18 luglio. Non è una missione impossibile ma quasi. Per uscire a testa alta da un’arena che oggi la vede in ginocchio, Meloni dovrebbe strappare un risultato eclatante nell’assegnazione dei Commissari, dovrebbe cioè soffiare al francese Breton, già commissario al mercato unico e all’industria l’incarico e soprattutto la vicepresidenza esecutiva della Commissione, l’unica su quattro ancora in ballo. Nulla però autorizza Giorgia a sperare che Liberali e Socialisti, nonché francesi e tedeschi, rinuncino al gioco durissimo che hanno adottato sinora: che evitino cioè di tenere i Popolari sotto scacco imponendo una nuova umiliazione per la leader che considerano simbolo di tutto quel che temono nell’Unione e nei rispettivi Paesi.

Senza sorprese molto vicine al miracolo, il 18 luglio a Strasburgo Meloni si troverà di fronte a una delle scelte più difficili della sua vita politica. Potrà rassegnarsi a sostenere comunque la von der Leyen, che con 399 voti non dispone di margine sufficiente rispetto ai 361 necessari per sentirsi sicura, riconoscendo così la propria almeno momentanea subalternità. Oppure potrà far mancare il supporto a Ursula, cioè a quella che è stata sinora la sua principale alleata a Bruxelles, nella speranza che il fallimento della candidata dimostri l’imprescindibilità di un accordo con Roma. Ma se Ursula dovesse passare comunque, magari col sostegno dei Verdi o degli slovacchi di Fico che il Pse sta corteggiando, la sconfitta diventerebbe disastrosa e avrebbe probabilmente ricadute pesanti sulle trattative con Bruxelles in materia di conti pubblici e rigore della procedura d’infrazione.

Quello di due giorni fa è stato il giovedì nero di Giorgia anche per altre ragioni. Isolata nell’establishment dell’Unione la leader di FdI lo è anche nella destra europea. Ha perso per strada l’alleanza con Orbàn, che sta lavorando alla costruzione di un suo eurogruppo. Rischia l’emorragia della sua Ecr, che la possibile uscita del Pis polacco farebbe precipitare dall’attuale terzo posto nella classifica degli eurogruppo più forti giù sino al quinto.

In più il rischio di un crollo di Biden minaccia di privarla del principale punto di forza e l'avvento di Trump, che la considera più o meno una traditrice, non solo non compenserebbe il danno ma lo moltiplicherebbe. Insomma nelle prossime tre settimane Giorgia può solo sperare che succeda qualcosa, magari in Francia, di portata tale da rovesciare il tavolo.