Claudio Tito su Repubblica ha cercato di alzare ancora di più la pila delle pratiche accumulatesi sulla scrivania di Giorgia Meloni, sorpresa in una vignetta del Corriere della Sera al suo ritorno in ufficio nella classica invettiva romanesca contro “li mortacci” degli altri. In particolare, Tito ha un po’ tirato sul ritardo, ormai in esaurimento, della designazione di chi rappresenterà l’Italia nella Commissione europea che la presidente confermata Ursula von der Leyen sta predisponendo. Lo stesso Tito, d’altronde, ha riconosciuto che in fondo l’Italia non è la sola ritardataria, essendovi altri Paesi dell’Unione incapaci di una designazione perché privi di un governo. Lo è persino la Francia, pur non menzionata nell’articolo di Repubblica, più di un mese e mezzo dopo elezioni anticipate. Ma la Francia, si sa, è particolare. Il presidente Macron non ha bisogno di nascondersi dietro un governo, né gradito né sgradito, per dare le sue indicazioni a Bruxelles. E trattarne il corso dietro o davanti alle quinte.

La presidente della Commissione europea sarebbe in “gelo” con la Meloni anche per le insistenze, probabilmente rinnovate attraverso la presidente del Parlamento europeo molto amica della premier italiana, nella richiesta di una vice presidenza della stessa Commissione per il rappresentante italiano. Insistenze che starebbero creando problemi alla von der Leyen, a prescindere dalle qualità personali del commissario di cui ormai si conosce il nome: l’attuale ministro agli affari europei e dintorni Raffaele Fitto. Qualità che la presidente della Commissione apprezza ma che sono politicamente in conflitto, diciamo così, con l’appartenenza ufficiale di Fitto ad un partito i cui rappresentanti nel Parlamento europeo hanno votato contro la sua conferma.

È il partito della stessa Meloni, noto come Fratelli d’Italia. La cui convergenza con la Lega di Matteo Salvini nell’Europarlamento è stata ed è una circostanza aggravante, diciamo anche questo, per l’animosità dello stesso Salvini verso Ursula von der Leyen espressa anche quando la premier italiana era riuscita a instaurare con lei un rapporto ostentatamente eccellente, fra baci, abbracci e viaggi insieme. Questo clima fra le due donne, per carità, potrà anche tornare perché in politica la regola è di non dire mai a niente e a nessuno. E le deleghe di Fitto, alla fine, potranno anche aiutare. Ma in questa estate torrida sotto tanti altri aspetti è intervenuto fra la Meloni e la von der Leyen un inconveniente, se non lo vogliamo chiamare incidente.

È la mancata risposta, che la Meloni invece si aspettava per evidenti ragioni politiche, alla lettera di sfogo inviatale - e diffusa pubblicamente - contro le strumentalizzazioni alle quali, volente o nolente Bruxelles, si era prestato il famoso rapporto europeo sullo stato del diritto in Italia. Dove, a leggere quel dossier per le fonti usate nella stessa Italia dagli estensori raccogliendo più opinioni che fatti, sarebbe tutto in pericolo, anche la libertà di una stampa che pure può scrivere del ministro della Giustizia in carica come di un ubriacone per le riforme della Giustizia che intende portare avanti in Parlamento.

Dopo quella già approvata, e controfirmata dal capo dello Stato pur all’ultimo momento utile alla promulgazione, per l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, la delimitazione di quello del traffico di influenze e un ricorso più garantista all’arresto prima del processo, affidandone in prospettiva la decisione ad un collegio di giudici.

Solo a Bruxelles - diciamo la verità, anche a costo di apparire sovranisti della peggiore specie - poteva saltare in mente l’idea che in un’Italia dove si può scrivere - ripeto - anche di un ministro della Giustizia ubriacone per questi interventi o iniziative, o per avere dichiarato di non essere riuscito, con la sua esperienza di ex magistrato, a comprendere un’ordinanza giudiziaria relativa al caso di Giovanni Toti, fosse davvero in pericolo anche la libertà d’informazione e d’opinione. Anche per questo penso che una risposta alla Meloni, pubblica e non privata, da parte di Ursula von der Leyen fosse e sia tuttora dovuta.