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Mercoledì, al Senato, si è affacciato per alcune ore uno spettro riemerso dal passato: l'alleanza Lega-M5S, il governo gialloverde, quello che ancora oggi, in Europa, solo a sentirlo nominare toccano ferro. La concreta possibilità di un voto comune delle due forze un tempo alleate su uno dei temi più nevralgici, le armi all'Ucraina, è svanita quando la Lega ha accettato di rimaneggiare il suo odg “pacifista”, che i 5S erano pronti a votare. La versione andata al voto era abbastanza annacquata da permettere alla maggioranza di sostenerla e da spingere il Movimento a ritirare l'appoggio limitandosi a uscire dall'aula al momento del voto. Ma il fantasma evocato non è scomparso. Il segnale che la Lega intendeva lanciare resta e per quanto impraticabile appaia oggi la resurrezione di quel fronte resta minaccioso. La scorsa legislatura ha dimostrato che nella politica italiana niente è davvero impossibile.
Mercoledì, alla Camera, si è palesato, ancora timidamente, un problemino che, se la riforma costituzionale della premier arriverà in porto passando indenne le rapide del referendum, diventerà un problemone. Giuseppe Conte ha dimostrato nei fatti di non avere alcun intenzione di lasciare senza combattere la candidatura del centrosinistra a Elly Schlein: galante sì, ma fino a un certo punto. Ha cercato, e in parte è anche riuscito, a rubare la scena a Elly duellando in prima persona con la premier. Con l'attuale legge e con questo sistema il problema non si porrebbe, per una eventuale coalizione di centrosinistra: il leader del partito che prende più voti in una coalizione è automaticamente premier. Con il premierato le cose cambierebbero e la scelta del candidato diventerebbe una parte integrante del percorso verso le urne, un po' come capita negli Usa. A destra non ci sarebbe problema: la premier uscente nonché leader del partito di ampia maggioranza relativa non avrebbe rivali. A sinistra, dove lo stacco tra i due partiti principali potrebbe essere ridotto a uno o due punti percentuali e dove in compenso la popolarità di Conte potrebbe surclassare di molte lunghezze quella di Elly invece sì.
In definitiva sia Salvini che Conte hanno bisogno di una alternativa alle attuali alleanze da minacciare tatticamente per poter trattare da una posizione di forza, o almeno di non assoluta debolezza, con i partiti alleati, o potenzialmente alleati. Senza quel “secondo tavolo” il leader della Lega sarà costretto a ingoiare tutto o quasi come ha dovuto fare nell'ultimo anno e mezzo. Senza quel “piano b”, Conte non ha alcuna possibilità di contendere a Schlein la candidatura al premierato, a meno che il suo Movimento non superi il Pd nel voto di lista: ipotesi possibile ma non certo probabile, nonostante lo scarto tra le due forze sia stando ai sondaggi ridotto.
È dunque possibile e forse presumibile che le due forze, ora o fra qualche mese, di certo non prima delle elezioni europee, decidano di usare l'arma letale a loro disposizione: la minaccia di tornare all'alleanza del 2018. Per Schlein sarebbe la rinascita di quel polo catastrofico: perderebbe ogni possibilità di sconfiggere la destra di Giorgia. Per Meloni sarebbe meno tragico ma pur sempre drammatico: inevitabilmente il testo Casellati dovrà essere rimaneggiato per definire una soglia per il premio di maggioranza. Con tre poli in campo invece di due le possibilità per una destra senza Lega di superare quella soglia sarebbero molto esigue. Meloni, inoltre, potrebbe dover competere direttamente con “Giuseppi” invece che con Elly, e sul piano della resa mediatica e della popolarità facile si tratterebbe di un rivale molto più insidioso. La minaccia, insomma, potrebbe far tremare le due primedonne della politica italiana con fondati motivi.
Il guaio, dal loro punto di vista, è che su alcune materie chiave i due partiti non sono affatto incompatibili: la politica estera, in primo luogo, questione che nei prossimi anni potrebbe diventare di gran lunga la più centrale di tutte, il comune e mai del tutto superato antieuropeismo. poi l'immigrazione, dove i 5S sono a tutt'oggi più vicini all'ex Capitano che alla outsider del Pd. Ma in realtà, nonostante la campagna leghista contro il rdc varato peraltro dal governo Lega-M5S, anche su alcuni capitoli di politica sociale l'intesa potrebbe essere trovata.
L'ostacolo, e si tratta di una montagna non solo di un macigno, è che la Lega non è più quella del 2018, che Salvini sognava di trasformare in Lega Italia lasciandosi alle spalle l'eredità bossiana. Quel progetto è fallito e la Lega, per forze se non per amore, è tornato “il partito del Nord”. Il M5S, in compenso, non è più quello solo d'opinione dell'epoca Casaleggio. Oggi è soprattutto “il partito del Sud”. A fronte di un impedimento di questa gigantesca portata, persino la minaccia tattica di un nuovo matrimonio tra Salvini e Conte, dopo il tempestoso divorzio, dovrebbe apparire disinnescata e risibili. Salvo che nella politica italiana il dogma è “Mai dire mai”.