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Ho conosciuto Gianni De Michelis al congresso dell’Ugi del ’ 64 a Firenze, quando lasciava la presidenza di quella straordinaria scuola di politica e di cultura laica che fu l’Unione Goliardica. Passava la mano ad altri perché, già laureato in chimica, si accingeva a salire precocemente in cattedra all’Università di Venezia. Quel giovane alto e, allora, magro prometteva bene. Un’intelligenza vivissima a da supportava una trasparente ambizione e una sete di vita allargata che di lì a pochi anni avrebbe contribuito a scardinare alcuni dei canoni ingessati che, tra conformismo e moralismo d’accatto regolavano da sempre la politica italiana.
Di qui lo stereotipo del ministro ballerino e zazzeruto che, anche nei giorni del cordoglio per la sua scomparsa, non ha reso giustizia ai meriti del politico e dell’uomo di governo che nei suoi vari incarichi, e in particolare da ministro degli Esteri, si segnalò oltre che per la padronanza dei dossier affrontati, per le doti di preveggenza che lo portarono a intuire la fine del comunismo, il ruolo globale della Cina e soprattutto la rilevanza del fenomeno dell’immigrazione. Che se fosse stato lui ad affrontarlo, lo avrebbe fatto con metodi assai diversi da chi oggi pretende di risolverlo con la forza.
Questo anche perché, tra le doti che spesso si suole attribuire ai terzetti, in quella straordinaria cintura di talenti politici che nel Psi degli anni ’ 80 favorì l’ascesa di Craxi e che era costituita da Amato, Martelli e De Michelis, il ruolo del bello era fuori discussione, quello del più intelligente è ancora occasione di disputa, ma il buono era certamente De Michelis. Una bontà e una generosità che elargiva non soltanto alla sua cerchia di amici e collaboratori, ma anche e talvolta con qualche leggerezza, a quel più ampio giro di cortigiani e corteggiatrici che lo circondava negli anni della fortuna.
A questo atteggiamento di fondo De Michelis accompagnava un giocoso edonismo e un tratto di fanciullesco abbandono nel godere degli aspetti più leggeri dell’esistenza che destarono scandalo nel moralistico grigiore delle abitudini legate alle due chiese allora prevalenti, quella democristiana e quella comunista. Ma era uno stile di vita, quello delle sue notti, che non toglieva nulla all’impegno rigoroso delle giornate di lavoro dell’uomo di Stato i cui successi – dal decreto di San Valentino al Trattato di Maastricht – sono riconosciuti ancora oggi.
E qui faccio ricorso a un ricordo personale: chiacchierando con Andreotti dopo una messa celebrata all’alba, ora in cui l’assai mattiniero presidente del Consiglio correva il rischio di incontrare il suo ministro degli Esteri al rientro di un sabato notte in discoteca, il Divo Giulio mi diceva: «Mi meraviglio, con tutto quello che si dice di lui, come faccia De Michelis già a qualsiasi ora della mattinata ad essere così sveglio e lucido…». Sarà l’allenamento presidente, replicavo. «Eh già – mormorava Andreotti con uno di quei sorrisi enigmatici che ne facevano quasi scomparire le labbra sottili – sarà quello che è mancato a me…».
Le sorti cambiarono in pochi mesi per entrambi, in una temperie che travolse tutto un mondo e che merita una lettura storica meno superficiale di quella data finora. De Michelis, di quella stagione, era forse il personaggio più emblematico, nelle sue luci decisamente prevalenti sulle ombre. Un uomo, mi viene da concludere, che ha attraversato il mondo non perdendo l’innocenza.