Martedì mattina, 15 aprile. Da tre giorni è in vigore il decreto Sicurezza, che, tra le varie “prodezze”, introduce l’inedito reato di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario” (così letteralmente definito dal testo) configurabile anche in termini di “resistenza passiva” (sempre così battezzata dal legislatore, cioè dal governo). Ebbene, a 72 ore dall’ingresso nell’ordinamento dell’iperbolica e sconcertante novità, a Piacenza si ha notizia della seconda “rivolta” inframuraria in tre giorni: la prima si era registrata a Cassino domenica, teatro della seconda è l’istituto emiliano.

All’agenzia Agi “fonti qualificate” riferiscono quanto segue: «Il ritardo di alcuni reclusi a rientrare in cella avrebbe innescato i disordini». Basta poco a comprendere che dev’essere stata fatale non tanto la «flemma» dei detenuti nel tornare alle «stanze di pernottamento», quanto la conseguente reazione degli agenti.

Ancora poche ore e il segretario del sindacato della polizia penitenziaria più attento alla condizione non solo del corpo ma anche dei carcerati, la Uilpa di Gennarino De Fazio, diffonde la seguente nota: «Dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto legge sicurezza e l’entrata in vigore, da sabato scorso, del reato di rivolta all’interno di un istituto penitenziario, sono aumentate le tensioni nelle carceri e in quattro giorni sono state almeno due le gravi situazioni di disordine che la polizia, sempre più stremata nelle forze e mortificata nel morale, ha dovuto fronteggiare con non poche difficoltà. La prima domenica sera presso la casa circondariale di Cassino, la seconda», appunto, «presso la casa circondariale di Piacenza».

Dovrebbe bastare: gli agenti sanno che il minimo accenno di inottemperanza agli ordini può tradursi, se denunciato, in un’indagine penale a carico dei reclusi “insofferenti”. I detenuti a loro volta sanno che ogni mossa può diventare l’occasione per ulteriori guai e condanne. Un quadro da incubo che, come dice De Fazio, può solo accrescere le «tensioni».

Ed è esattamente così considerato che – come anticipato in ripetute occasioni, negli ultimi mesi, su queste pagine da Damiano Aliprandi – la norma sulla “resistenza passiva” dietro le sbarre non poteva che assumere i tratti di una compressione sadica dei diritti costituzionali, per i malcapitati ristretti nei penitenziari del Belpaese: dissentire da un ordine, esprimere tale dissenso anche solo con la resistenza passiva, diventa reato, punibile fino a 8 anni. «Costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza», recita il nuovo articolo 415- bis introdotto dal decreto nel codice penale.

Questa forma di accanimento del governo nei confronti dei reclusi è inspiegabile. Lo hanno notato anche cinque osservatori dell’Onu che, come riportato da il manifesto tre giorni fa, si sono detti «allarmati» per la «restrizione inutile e sproporzionata del diritto di protesta pacifica e di espressione» dei detenuti. Ma non serve. Il governo tira dritto nella propria insensata guerra ai carcerati, già costretti in condizioni tragiche dal sovraffollamento. Insiste, il governo, incurante dei suicidi che, nel nuovo anno, sono stati già 25.

All’Esecutivo si contrappongono gli sforzi di chi prova a lanciare uno sguardo umanizzante e pietoso sui detenuti: da Papa Bergoglio che nella propria visita di giovedì a Rebibbia è arrivato a scusarsi con i carcerati per non poter compiere la rituale lavanda dei piedi, ai giovani avvocati dell’Aiga, che hanno concluso ieri la cinque giorni di verifiche in 76 istituti di pena di tutto il Paese. Fino ai radicali e a Nessuno tocchi Caino, che domani riserverà la consueta visita pasquale alla casa circondariale di “Rebibbia femminile”, «il più grande carcere femminile europeo, uno dei tre istituti italiani ( insieme alle case di reclusione di Trani e Venezia) esclusivamente dedicati alle donne», laddove «tutte le altre detenute sono carcerate in 45 sezioni femminili di carceri concepite per ospitare uomini».

Uno schieramento di forze a cui non manca di offrire il proprio contributo la Consulta, che ancora ieri, con la sentenza 52 del 2025, ha aggiunto ancora un piccolo tassello alla umanizzazione costituzionale del sistema: la nuova pronuncia tra l’altro ha dichiarato “illegittimo” il divieto di “concedere al padre la detenzione domiciliare quando la madre sia deceduta o impossibilitata a occuparsi dei figli, ma questi possano essere affidati a terze persone”.

Sono tante voci. Ma quella, imperturbabile, dell’Esecutivo è più forte. E soprattutto, non arginabile. È uno sguardo in cui prevale la visione mostrificante nei confronti dei reclusi, bollati come rivoltosi e, in quanto tali, criminali per il semplice fatto di non eseguire, immobili, gli ordini della polizia, a fronte di condizioni disumane di sovraffollamento. Una tensione insensata che sembra alimentarsi da se stessa. E che nessuno, dal Papa alla Consulta, è in grado di fermare.