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Il presidente Giuseppe Conte nella conferenza stampa di stasera
Se l’anziano zio frate cappuccino è anche il suo confessore, Giuseppe Conte può ben attendersi una familiare e benevola assoluzione per lo strappo all’evidenza non dico bugia, per carità - compiuto quando ha detto di non aver impiegato «un minuto più del necessario», o del dovuto, nel varare tra pause e rinvii il decreto legge dedicato al Rilancio, con la maiuscola, in questi tempi di Coronavirus. È stato, anzi è un provvedimento eccezionale almeno per le sue dimensioni, coi suoi 256 articoli stesi in quasi 500 pagine. Più che un testo legislativo, è un volume come quelli di programmazione economica che sfornavano i primi governi di centro- sinistra, col trattino.
E che Amintore Fanfani, non certo ostile alla formula dell’alleanza della Dc con i socialisti, liquidava come “libri dei sogni”.
Pensate un po’ di che razza di super emendamento, di quante migliaia forse di commi, il decreto avrà bisogno in Parlamento, superando la boscaglia delle proposte di modifica dei gruppi della maggioranza e delle opposizioni, il governo sarà costretto a ricorrere il governo sarà costretto a ricorrere alla ormai solita questione di fiducia, nonostante le promesse in senso contrario attribuite al ministro Gualtieri dai capigruppo del Pd. Penso che non vogliano pensarci neppure i presidenti delle Camere, già alle prese con le difficoltà logistiche delle assemblee in cui fare rispettare le distanze fisiche o addirittura “sociali” da emergenza virale.
Di riserve su questo provvedimento a pioggia alluvionale di aiuti e soccorsi mi permetto di coltivarne nella stessa misura del giornale oggi più governativo sulla piazza, che è Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio.
Il quale deve averci messo personalmente le mani su quel titolo di prima pagina in cui si è letto che «ce n’è per tutti e ora bisogna aspettare prudentemente, ma un po’ anche ansiosamente, «la prova dei fatti», al plurale. Con o al di là dei tempi e dei rinvii davvero necessari, e non concessi invece con troppa pazienza o disinvoltura, ho l’impressione che il presidente del Consiglio abbia compiuto non so se l’ultimo, ma sicuramente un altro passo decisivo verso l’appuntamento previsto, o messo nel conto, non da un modestissimo osservatore come l’anziano giornalista che scrive ( e non lo ha mai incontrato), ma dal suo Maestro di dottrina e di professione forense.
Che è naturalmente Guido Alpa, lasciatosi andare qualche mese fa con lo sguardo un po’ distaccato ma esperto di un vecchio e credo nostalgico socialista, nei ricordi almeno anche del mio amico Ugo Intini, alla profezia o previsione del momento, o giorno, in cui il suo allievo salito così imprevedibilmente alla politica dovrà “scegliere” fra il partito che l’ha designato a Palazzo Chigi e quello che porta il fardello politicamente più pesante della maggioranza. Parlo, rispettivamente, del Movimento 5 Stelle, comunemente chiamato anche dei grillini, pur se il suo comico fondatore, “garante”, “elevato” e quant’altro è diventato avaro di pubbliche esternazioni o anatemi, e il Pd guidato al Nazareno da Nicola Zingaretti.
Che nella compagine governativa ha affidato il ruolo di capo- delegazione al ministro dei beni culturali e del turismo Dario Franceschini, non al superministro dell’Economia Roberto Gualtieri, come forse qualcuno si aspettava per la mole e il peso delle sue competenze di merito.
Più passa il tempo e più si capisce, come si è visto davanti e dietro le quinte nella difficilissima gestazione del decreto legge finalizzato al rilancio, lasciatemelo scrivere questa volta con la minuscola, che fra i due partiti le distanze politiche, culturali, a volte persino antropologiche, si allungano anziché accorciarsi.
E si è anche capito come e perché il vecchio e saggio Alpa abbia pensato più ad una scelta del suo allievo e amico fra l’uno e l’altro partito che ad una decisione, del resto più volte esclusa dallo stesso interessato, di fondare un proprio movimento.
Così volle fare invece con pochissima e non casuale fortuna alla vigilia delle elezioni del 2013 un altro arrivato a sorpresa a Palazzo Chigi e non proveniente dalla politica: il professore ed ex commissario europeo Mario Monti. Il quale dalla sua creatura, ad elezioni avvenute, fu il primo a prendere le distanze, pago solo di essere riuscito a fermare sulla soglia della vittoria, in un recupero che sembrò miracoloso, il suo ormai oppositore Silvio Berlusconi, sbarrandogli orgogliosamente - con tanto di dichiarazioni di compiacimento - le porte del Quirinale Di partiti più o meno improvvisati a Palazzo Chigi ne ho visto uno solo resistere per un po’ anche dopo il passaggio elettorale che lo aveva motivato.
Fu quello dell’ora quasi novantenne Lamberto Dini, nato come una costola dal centrodestra dopo la rottura fra il primo Berlusconi e il primo Umberto Bossi.
Il suo fu un governo “tecnico” protetto per un anno abbondante dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro fra l’insofferenza e le proteste anti- ribaltoniste del Cavaliere di Arcore. Che pure si era tenuto Dini nel suo primo governo come ministro del Tesoro, prelevandolo direttamente dalla Banca d’Italia.
Quello di Dini fu tuttavia un partito ad uso esclusivamente personale, non se l’abbia a male l’interessato.
Il fondatore, per tutta la legislatura successiva alle elezioni politiche anticipate del 1996, grazie al contributo dato alla vittoria della coalizione ulivista di centrosinistra, riuscì a rimanere ministro degli Esteri, mentre a Palazzo Chigi si avvicendarono Romano Prodi, Massimo D’Alema addirittura per due volte - e Giuliano Amato.
Un’impresa forse irripetibile ai tempi d’oggi, con gli equilibri politici liquidi o gassosi cui ci hanno condannati le circostanze, virali e non.