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È probabile che, come ritengono praticamente tutti i commentatori unanimi, all'inizio Salvini si sia mosso in direzione di Mario Draghi, rinnegando l'iniziale «non se ne parla nemmeno», controvoglia, costretto alla svolta non solo dai suoi alti ufficiali del nord ma soprattutto dalle pressioni della base sociale leghista in quelle non secondarie regioni. Certamente ha nutrito il timore di lasciare campo libero alla competitor interna Giorgia Meloni e al suo progetto di saccheggiare dall'opposizione le riserve di voti antisistema leghisti. Ma quando si è deciso lo ha fatto con imprevedibile determinazione, tanto da autorizzare la previsione di un nuovo cambio di pelle del Carroccio: dopo la svolta da partito del nord a forza nazionale quello che porta alla costituzione di una forza sì nazionalista e sovranista ma in cornice europea. I fatti parlano da soli. L'appoggio della Lega a Draghi è stato, non senza paradosso, più convinto, deciso, persino entusiasta di quello dei partiti europeisti della ex maggioranza, imbrigliati e frenati dalle divisioni interne sia in LeU che, soprattutto, nei 5S. Sin della prima consultazione Salvini ha mirato ad accreditarsi come referente più affidabile di Draghi nella maggioranza in nome del comune ' pragmatismo' e dell'identica determinazione nel difendere gli interessi degli italiani.
Non è solo questione di veti mancati nei confronti di altre forze politiche: quella da parte della Lega era una mossa prevedibile e tesa a mettere in difficoltà la controparte, che invece avrebbe tanto voluto disporre del potere di veto proprio nei confronti dei leghisti. Ma il carroccio ha anche evitato di mettere sul tavolo i propri cavalli di battaglia più ostici per gli avversari e forse per lo stesso presidente incaricato: la Flat Tax e le autonomie differenziate. Sull'immigrazione, poi, si è spinta sino a far proprie le posizioni europee, peraltro ben poco aperturiste nella sostanza, e ha certificato a disponibilità alla conferma della ministra Lamorgese agli Interni.
Il capofila dei No Euro, Bagnai, non ha risparmiato complimenti all'ex presidente della Bce. Il capitano in persona ha accorpato la distinzione «tra europeisti e antieuropeisti» a quella «tra destra e sinistra» : ciarpame del passato da riporre nel magazzino delle care vecchie cose. A Bruxelles il gruppo sovranista Identità e Democrazia ha rischiato la spaccatura in seguito alla reazione indignata dei leghisti alle critiche venefiche mosse dai fratelli tedeschi di AfD a Draghi. Insomma, si tratta di una manovra a tutto campo, e di quelle ambiziose, non di una manfrina per imbellettare la scelta di rispondere positivamente all'appello di Mattarella.
Che inizialmente Salvini si sia mosso per amore o per forza a conti fatti significa poco. In ogni caso, una volta partito, ha visto l'occasione d'oro e sta cercando di coglierla. Occasione per mettere in difficoltà la ex maggioranza, che infatti ha reagito all'arrivo del leghista con l'ordine e la freddezza di un formicai impazzito. Occasione per togliersi di dosso la patina di sfascista irresponsabile, che lui stesso aveva contribuito più di chiunque altro a costruire sbagliando dal Papee- te in poi praticamente tutto. Ma soprattutto occasione di indossare agli occhi di Bruxelles i nuovi panni della forza di governo certo discutibile, scomoda, criticabile, però nella sostanza affidabile. Con una meta chiara, non facile da raggiungersi ma neppure impossibile: l'ingresso in quel Ppe dove convivono Angela Merkel e l'ungherese Orban.
Proprio il caso Orban spiega meglio di molte analisi la repentina sterzata della Lega. Prima della pandemia l'ipotesi di governare contro la Ue era già vicina al miraggio ma ci si poteva almeno illudere. Dopo la pandemia anche quella illusione è diventata impossibile. Dunque Salvini si trova a dover scegliere tra la scomoda parte di Marine Lepen, fortissima nelle urne ma condannata all'irrilevanza, o quella del vituperato ungherese, criticato e detestato a volontà ma saldo perché del tutto inserito, sia pur a modo suo, negli equilibri europei. La mazzata del Papeete ha svelato a Salvini quanto insufficienti siano i consensi per governare senza finire presto disarcionati. Ci vuole una legittimazione europea e internazionale che sin qui alla Lega è mancata. La speranza di Salvini è riconquistarla nel lavacro del governo Draghi.