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Resistere al governo o far saltare l’alleanza coi Cinquestelle e andare a elezioni? Questo è il problema che ossessiona la Lega alla vigilia del voto europeo. Dilemma cui si aggiunge l’insidiosa offerta di Berlusconi: un governo di centrodestra dopo le elezioni anche senza andare al voto ma con Tajani premier, «perché a Salvini manca l’equilibrio dello statista». Un Berlusconi vitalizzato dall’agone elettorale e dall’ultima rasoiata arrivata ieri dalla Commissione anitmafia che, a due giorni dal voto, lo inserisce in una lista di impresentabili. L’obiettivo di Forza Italia è chiaro: spingere la Lega al divorzio coi Cinquestelle per ricomporre un centrodestra a guida moderata. Lo schema dentro il quale però non vuole tornare Giorgia Meloni che mira alla rottura tra Salvini e Di Maio e ad un’alleanza sovranista con la Lega. La questione dunque è l’asse Salvini- Di Maio sul cui destino ormai pubblicamente si confrontano a distanza Matteo Salvini e il numero due del Carroccio, Giancarlo Giorgetti. Da giorni il sottosegretario alla presidenza del Consiglio sta ripetendo che “così non si può andare avanti” mentre Salvini rinnova la fiducia a Conte e assicura che il governo proseguirà la sua marcia. E non solo perché c’è un contratto da onorare e un programma da assolvere. Ci sono altre argomentazioni, più sostanziali, che il Capitano riserva al suo inner circle. Staccare la spina al governo infatti – come ha spiegato ai suoi Salvini - sarebbe un’operazione dai rischi imponderabili. Infatti mentre Giorgetti è convinto che di fronte a una crisi Mattarella scioglierebbe le camere Salvini a questa ipotesi non crede. Il suo timore è che Mattarella proverebbe a cercare una maggioranza parlamentare a cui affidare almeno la manovra finanziaria e la necessaria messa in sicurezza dei conti. Ipotesi a cui Salvini è convinto si stiano preparando tutti, immaginando già un governo di scopo che attraverso astensioni e desistenze approvi la finanziaria e solo poi – magari dopo Natale, a febbraio o marzo– riporti il paese al voto. Non un governo tecnico dunque ma politico – magari un Conte bis – sorretto, con le cautele di cui sopra, dai Cinquestelle, Pd, Forza Italia.
Il secondo motivo per cui Salvini vuol durare al governo è la sua ambizione di poter essere non solo politicamente centrale ma addirittura autosufficiente. Nella visione di Salvini resistere al governo nella forma movimentista sperimentata sin qui provocherebbe nel medio periodo lo svuotamento di Forza Italia, e del partito di Giorgia Meloni, già oggi costretta a rincorrerlo sul suo terreno.
Del resto Salvini ha da tempo consumato rispetto a Berlusconi lo stesso parricidio consumato con Bossi: «Non ho nessuna nostalgia di vecchie alleanze» ha ripetuto in queste ore. C’è infine un terzo fattore che induce Salvini alla resistenza al governo come titolare del Viminale: il nuovo attivismo della magistratura. Nel circuito interno della Lega si parla di «un partito delle procure» pronto ad alzare il tiro sul Carroccio.
Il timore è che arrivino nuove inchieste giudiziarie non solo in Lombardia ma anche nel sud. In questo caso – è il ragionamento del vertice leghista – è meglio trattare e combattere da posizioni di forza ed eventualmente giocare il ruolo che fu di Berlusconi di contrapposizione a toghe rosse e giustizialismo.
Con ciò avendo in mano anche il casus belli rispetto ai Cinquestelle e un pretesto forte per far saltare tutto in aria. Il ragionamento di Giorgetti è esattamente opposto. Ostinarsi a resistere significa per il numero 2 di via Bellerio logorarsi, mettersi sulla scia della parabola renziana. Ma su Giorgetti si esercitano anche pressioni diverse. Internazionali – d’area occidentale – che spingono alla ricostituzione d’un centrodestra moderato, in grado di dialogare di più con l’Europa e gli Stati Uniti e meno con la Cina, per dire.
E pressioni sociali da parte dei settori produttivi del nord che vogliono farla finita con gli assistenzialismi targati Cinquestelle e le utopie regressive contro Tav, infrastrutture e grandi opere. Salvini non fatica a capire la logica di Giorgetti, gli riesce però difficile assecondarla: perché la riedizione del centrodestra significherebbe anche la messa in discussione della sua leadership.