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«Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo». Torna sempre buona l’ironia tagliente di Bertolt Brecht all’indomani di una tornata elettorale. Soprattutto se qualcuno prende sul serio le parole del drammaturgo e, dopo una sonora batosta, si spinge ad affermare: «Gli elettori decidono ma non hanno sempre ragione». Quel qualcuno è Carlo Calenda, leader di Azione e inventore del Terzo Polo, la cui performance alle Regionali lombarde e laziali non è stata esattamente brillante.
Magari la frase infelice gli sarà scappata di bocca, figlia dell’amarezza per il magro bottino elettorale (il 4,2 per cento il Lombardia e il 4,9 nela Lazio) dopo una campagna elettorale lunga e snervante. E dopo, soprattutto, aver imposto candidati in entrambe le Regioni, che si trattasse di corse solitarie, come nel caso di Letizia Moratti, o in coalizione, come avvenuto con Alessio D’Amato. Ma concesso il beneficio della stanchezza o della semplice gaffe (anche se in un giorno ha ribadito il concetto due volte), un leader che ambisce a costruire un nuovo soggetto politico dovrebbe guardarsi bene dall’incapparne in certi scivoloni. Prendersela con chi non ti ha votato accusandolo di non averti capito non è solo sbagliato, rischia di apparire infantile agli occhi di un elettore. Ma Calenda non si dà pace: «Avete tutti scritto che la Moratti era la candidata perfetta per la Lombardia. Il Lazio con un ottimo candidato e coalizione è andato peggio. Sono trent'anni che votiamo e siamo scontenti di chi votiamo. Sostengo da sempre che votiamo per ragioni sbagliate: appartenenza e moda», insiste il leader di Azione che, a differenza di un insolitamente silente Matteo Renzi, è un fiume in piena.
La scommessa Moratti, buttata nella mischia per sfidare più Pierfrancesco Majorino (sostenuto da Pd e M5S) che per battere Attilio Fontana, si è rivelata un flop ma pazienza. «Pensavo che la Moratti potesse prendere i voti della destra, degli elettori delusi da Fontana. È stato un giudizio errato», si concede un’autocratica Calenda, senza però rendersi conto della contraddizione di fondo: parlare all’elettorato di centrodestra presentandosi allo stesso tempo come possibile interlocutore del Pd. E rimanendo nel paradosso, analizzare la sconfitta diventa arduo. La colpa della debacle, di conseguenza, per il capo di Azione non è da ricercarsi nel messaggio poco chiaro, ma nell’incapacità di comprendere. O, tutt'al più, nello scarso «radicamento» sul territorio. Gli aut aut sul Movimento 5 Stelle o le fughe in avanti per spiazzare il Pd non sono contemplate nel ragionamento di chi si propone come leader di una forza del buon governo al di là delle etichette (idea non originalissima) “destra” e “sinistra”.
Il capitombolo elettorale non compromette, a quanto pare, la bontà della visione e del progetto, che nella testa di Calenda dovrà necessariamente approdare nel partito unico di centro «dell'area liberale e riformista» in vista delle Europee del prossimo anno. L’obiettivo è accelerare le operazioni: «A marzo si parte: chi c’è c’è. Rinvii non ne accetto più», dice il capo di Azione al Corriere della Sera. Già, chi c’è c’è, è il monito. Ma chi dovrà esserci? A chi è rivolto l’appello di Calenda? A Forza Italia? A pezzi del Pd? Alla sola Italia viva con cui è già avviata l’idea di fusione? L’ex ministro dello Sviluppo economico per ora non scopre le carte. «Quello che continueremo a fare è cercare di affermare il principio di non votare come s iè fatto anche in queste elezioni. Non c'è una spilletta “destra-sinistra” ma bisogna guardare alla qualità dei candidati», spiega Calenda. Di certo, garantisce poi, l’obiettivo «non è distruggere il Pd» perché «l’Italia ha bisogno di un partito socialdemocratico, come di un partito liberale». I dem, dunque, non sono il nemico. «Il problema del Pd è piuttosto che i suoi dirigenti, dopo ogni sconfitta, spiegano che hanno perso per colpa di qualcun altro», conclude il leader del Terzo Polo. E se lo dice lui...